13 ottobre 2013

Che poi

Mi Che poi io sono uno che spesso inizia con che poi. Cioè, meno spesso di quanto mi capiti di usare la parola cioè dopo un punto fermo, ma comunque con una certa frequenza.
Perché diciamocelo, se uno inizia con che poi e prosegue con cioè ha già portato a casa metà del lavoro, come quelli che quando andavo al liceo avevano il Moncler della taglia giusta, non in crescenza come il mio che mi arrivava a mezzacoscia, e di un colore di moda tipo blu, non verdebosco o tortorachiaro come lo sceglieva mia madre così era più originale, anche perché l'aneddoto da sfigato del liceo non guasta, quindi tanto vale usarlo specie dopo che poi e cioè.
Che poi, cioè, aneddoto da sfigato e punteggiatura sparpagliata un po' a cazzo. Un, po'. Come dire, guarda che io la virgola la metto dove dico io perché dietro c'è una logica un pensiero mica come voi, stronzi, ne avevo solo un paio e le ho messe da paura prima e dopo stronzi mica vicino a paio perdio.
Che altro? Ah, magari un ah dopo che altro e la bambina coi capelli rossi della seconda elementare, che mi disse una cosa molto intelligente per la sua età -non importa quale, basta che sia verosimile- con esito un po' commovente un po' cinico, un paio di cose orrende che farebbero di me un uomo di merda se non fosse che le racconto il che mi restituisce lo status di figo (con la gi sennò al nord non gradiscono e perdersi tutti i lettori del nord è un suicidio), eppoi qualche eppoi e cheffai e maddai di quando in quando, ché le doppie alzano le endorfine.
E poi (anzi, eppoi) via, col prossimo post.