Buongiorno a tutti. Minerva oggi non
riesce davvero ad aggiungere il punto esclamativo ai suoi saluti
introduttivi come fa abitualmente. La sua mente, infatti, sta
mettendo insieme le tessere di un mosaico su un tema non proprio
leggero – il pensiero della morte e la sua concezione nella nostra
società – col quale che ci piaccia o meno prima o poi dovremmo
fare i conti.
Eppure l'argomento, se affrontato in
modo adeguato, potrebbe addirittura aiutarci a vivere meglio, in modo
più consapevole e quindi potenzialmente felice. Forse proprio per
tale ragione viene relegato da politica e media sempre in un
'altrove' distante dalle nostre vite quotidiane...
Ma andiamo con ordine.
Viviamo in una società che sta
progressivamente rimuovendo il pensiero e la presenza della morte dal
proprio orizzonte cognitivo. Come scrive Norbert
Elias, tale sottrazione del suo pensiero alla mente e della sua
visione allo sguardo avviene per il tramite di diverse strategie: ai
bambini non viene fatta vedere la persona morente, non esistono quasi
riti e prassi che l'accompagnino alla fine o che sostengano i suoi
cari nell'accudirla, i luoghi stessi in cui l'evento accade sono
spazi appositi a parte da quelli quotidiani in cui s'è svolta la
vita – talvolta in strutture ospedaliere pur quando non v'è più
alcuna terapia con la quale intervenire. E il corpo della persona
morta – il cadavere – parimenti viene sottratto allo sguardo e al
contatto, vuoi per ragioni igieniche, ma vuoi anche per allontanare
qualcosa che 'non è più' da coloro che 'sono ancora'.
Ogni evento della nostra esistenza è
in qualche modo sempre inscritto nella – e condizionato dalla –
nostra cultura, rispetto alla quale articoliamo il nostro specifico
pensiero in base alle nostre uniche esperienze di vita. E nei diversi
contesti in cui l'animale-uomo esprime la propria esistenza vi sono
altrettanti modi in cui la questione viene affrontata: numerosissimi
sono i rituali che accompagnano la persona nel trapasso offrendole un
seppur illusorio sollievo, altrettante le forme di partecipazione
della comunità al difficile momento che stanno affrontando i parenti
della persona in oggetto, incalcolabile il numero di concezioni
dell'evento della morte e pertanto anche delle relative relazioni con
il cadavere – una volta accaduta – che può subire diversi tipi
di trattamento per renderlo idoneo alla fase ulteriore cui accede con
la morte in base alle credenze specifiche di ciascuna cultura (chi
fosse interessato può leggere un bellissimo testo comparativo
sull'argomento edito ormai una ventina d'anni orsono: “Celebrazioni
della morte” di Huntington e Metcalf).
Da noi, invece, sembra proprio essere
in atto una rimozione del pensiero della morte e una sostanziale
assenza di modalità adeguate (sia collettive, sia individuali)
nell'affrontarla. In sintesi, non vi è alcuna riflessione né presa
di coscienza collettiva della cosa nella nostra società, bensì solo
un'amplificazione mediatica e politica dell'evento sempre concepito
però come 'stra-ordinario', ovvero legato a una estemporaneità che
si nutre di stragi, di guerre, di simboli dello star-system o di
crimini, atti di eroismo, fatalità.
Vero è che questi eventi 'fanno
notizia', ma non avete la sensazione che il contraltare sia – da
parte di quegli stessi media – l'evitazione al tempo stesso di
qualsiasi discorso rispetto alla morte come 'evento quotidiano' di
chiunque per malattie o per vecchiaia? Quando ci troviamo ad accudire
qualcuno che sta concludendo la propria esistenza, non siamo forse
completamente privi di qualsiasi ragguaglio – e potere – su cosa
potremmo fare magari per alleviargli la sofferenza oppure su cosa
dirgli per alleviargli la paura? Non siamo forse terribilmente e
disperatamente soli in quel momento, come lo è la persona che ci sta
lasciando?
Io sarò troppo riflessiva, ma non
riesco a non legare tutto questo ad altri discorsi, che invero
trovano ampio spazio nel discorso culturale contemporaneo proprio
della nostra società – uno tra tutti il mito dell'eterna
giovinezza e della non accettazione dello scorrere del tempo. Dove
quest'ultimo, al contrario, viene combattuto strenuamente – nelle
nostre menti e con ogni strategia a nostra disposizione – nel
tentativo di controllarlo, addomesticarlo, cancellarlo addirittura:
sospenderlo e rarefarlo al punto forse di sperare di rendere
il presente assoluto,
immutabile, eterno.
E se questo risponde a un'angoscia che
ci attanaglia perché la morale laica non ha ancora elaborato
soluzioni pacificanti alle nostre paure, su queste mi sembra
parimenti agire un discorso politico che le alimenta così come
alimenta soluzioni fasulle per distoglierci dalla realtà,
convincendoci quasi che la morte – relegata quanto più possibile
lontano da noi, dalla nostra esperienza quotidiana – non debba mai
giungere a colpirci in prima persona.
Seguendo questa
suggestione, alla fine ci illudiamo di una qualche eternità della
condizione di 'giovani adulti', posticipiamo decisioni e scelte
rimandandoli a un inderminato futuro in cui saremo liberi dal giogo
del lavoro e della mancanza di tempo e, infine – a partire
dall'annullare quella, che è la paura più grande – annulliamo
progressivamente emozioni, sensazioni e sentimenti elementari
– quelli che ci sono di stimolo e di reazione quando le condizioni
ci sono avverse, che ci fanno andare avanti 'malgrado tutto', che ci
fanno reagire all'ingiustizia, che ci fanno combattere per la nostra
sopravvivenza.
Non provare più questi sentimenti e
contemporaneamente avallare una concezione della vita in cui il
pensiero dell'ineluttabilità della morte viene rimosso significa
accettare di rimanere immersi (e sospesi) in un limbo di stasi, di
non-vita, di attesa di un'esistenza che sarà sempre di là da venire
– con scelte individuali e ricerca degli elementi della propria
felicità personale che continuano a essere rimandati – e quindi
abitare l'apatia, l'inazione, la sopportazione (già morti mentre
ancora in vita).
Pensare al contrario alla morte,
prendere sul serio coscienza che prima o poi ci accadrà, può
significare invece riflettere sulle priorità della nostra esistenza,
su ciò che ci potrebbe rendere felici e sul cominciare a
costruircelo e reclamarlo (come nel caso di diritti che ci vengono
negati).
Sarà forse anche per questa ragione
che i nostri politici vogliono sottrarci la possibilità di mettere
fine alle nostre esistenze quando non sono più tali ma solo stati
vegetativi che si prolungano all'infinito?
Sarà forse perché riprendere il
controllo della nostra morte – sottraendola a una non-vita –
significa anche riprendere il controllo e il potere decisionale sulle
nostre vite per renderle tali – sottraendole alla loro quotidiana
'mortificazione' e al loro quotidiano tentativo di annullamento dei
nostri diritti e della nostra volontà – finché ancora respiriamo,
camminiamo, proviamo sentimenti, abbiamo desideri e potremmo 'combattere' nella speranza di ottenerli?
Grazie Minerva,
RispondiEliminaper rompere l'omertà su una delle lacune più grandi della cultura d'Europa e Usa (che non è la "nostra", almeno non la tua e la mia ;) ove è oramai sparita persino la menzione all'assenza dell'idea di morte. I presunti immortali negano il diritto a morire! e non parlo solo delle note triste vicende legislative italiane, ma anche alla negazione del diritto dei malati terminali a conoscere la loro condizione e prepararsi adeguatamente. Propongo il divieto alla professione medica a tali ipocriti che dicono al moribondo: come si vede che sta meglio oggi! mentre ai parenti dicono di preparare la bara e la lotta per l'eredità, che è l'unico aspetto relativo alla morte che sembra interessare...
in effetti una buona «cultura» della morte è una ricchezza, e probabilmente questa nostra «perdita» della morte è uno dei tanti aspetti dell’afasia interiore e collettiva del cosiddetto uomo post moderno, comunque son cose abbastanza risapute, basti pensare all’antico «storia della morte in occidente» di ariès
RispondiEliminai nostri politici, secondo me, non sono così raffinati da elaborare certe strategie, diciamo che nella loro arroganza sono «ciechi»
Concludi con una domanda la cui risposta, almeno da parte mia è sì.
RispondiEliminaPerò la morale laica non ha trovato soluzioni pacificanti alle nostre paure perché è una morale che invita alla ricerca ed all'esperienza personale, percorso che può darci risposte non pacificanti ma sulle quali bisogna almeno riflettere sulla natura delle nostre paure.
Cosa che, come sottintende il tuo post, ben pochi hanno il coraggio di fare.
Pezzo in parte condivisibile - anche se, come è stato fatto notare con l'indicazione di Ariès, certo non originalissimo - ma che a tratti la butta un po' troppo sul culturale e quindi sull'astratto. Esempio, dici: "Non siamo forse terribilmente e disperatamente soli in quel momento, come lo è la persona che ci sta lasciando?". Se abbiamo la possibilità di accedere a un hospice, no, non necessariamente. O forse che in Italia un disoccupato che non ha diritto alla cassa integrazione si sente granché in compagnia? Insomma, non prenderei quelle che sono carenze, spesso puramente locali, dello stato sociale che vanno combattute come tali per il frutto di epocali processi culturali che necessitano di rielaborazioni altrettanto epocali per essere contrastati.
RispondiEliminaCi sono poi altre minori inesattezze: per esempio non è affatto vero che in ospedale il cadavere venga sottratto alla sguardo, anzi, se credi puoi guardarlo quanto vuoi. (Si noti bene che parlo per diretta e recente esperienza personale.)
Credi che si possa aggiungere davvero qualcosa a quello che hai scritto?
RispondiEliminaSe si allora sei davvero modesta. :-)
Ci provo.
Non avremo mai il controllo sulla nostra morte, (al di la del sistema e di cio' che il sistema disegni per noi) finchè non avremo il controllo della nostra vita.
Possiamo decidere da noi come affrontare la morte e il suo pensiero, solo se arriviamo a decidere da noi come vivere.
Come si fa a decidere come vivere io non lo so mica poi bene, ci provo ogni giorni pero', senza stancarmi un secondo di farmi domande e di ricercare probabili risposte, è paradossale che si possa decidere di morire (suicidio), o aumentarne le probabilità (vivere come me per esempio), ma che non si possa decidere come e quando nascere.
In effetti adesso che ci penso l'esatto contrario di morte non è vita, ma nascita, la vita è il durante, ed è questo durante che il sistema sta traviando, è questo durante che ci scivola tra le mani come fosse sapone o olio.
Sai quanto io ci tenga a non tenerci al sistema, e sai quanto mi faccia male sapere che la maggior parte delle persone ormai è intrappolata, schematizzata, presa.
Fino a quando non riusciremo a ribaltare tutto, a vedere le cose senza filtri ne setacci, allora forse impareremo che la morte va vissuta serenamente, perchè lasciare questo mondo significa fare spazio, significa.....e qui ci sta una citazione.... "Quanta gente comunque ci sarà che si accontenterà"
@diegod56: "sono cose abbastanza risapute" per chi ha letto quel tomo che tu hai citato di Ariès e per chi pensa a queste questioni per propria sensibilità personale. Ma non tutti sono così riflessivi e così immuni a certa comunicazione che veicola contenuti che ci distolgono da questa ineluttabile realtà. Il mio è un invito a pensarci un po' di più per magari riprendere in mano la propria vita.
RispondiElimina@sassicaia: concordo su tutto.
@Arturo: vale quanto già commentato per Diego. "non prenderei quelle che sono carenze, spesso puramente locali, dello stato sociale che vanno combattute come tali per il frutto di epocali processi culturali che necessitano di rielaborazioni altrettanto epocali per essere contrastati": le carenze locali dello stato sociale non possono però essere dovute anche alla scarsa considerazione che certi argomenti hanno in un contesto e da una scarsa presa di coscienza collettiva rispetto a temi che sono essenziali per le nostre vite? Ti sembra pacificata/risolta la questione in Italia? Ti sembra, ancora prima, che ci sia un vero dibattito e la garanzia di un accompagnamento per l'individuo alla fine così com'egli lo desidera? A me no pare di no.
Questo detto, hai mancato il punto essenziale: la mia argomentazione è sulla rimozione del tema della morte nella nostra società (che non puoi negare, sebbene in pochi intellettuali o 'perditempo' invece ci pensiamo) e su quanto considerarla invece potrebbe significare cogliere un'opportunità per riprendere il controllo della propria vita e per rivendicare diritti che non abbiamo ancora. Non è un trattato di thanatologia, è più un memo per invitarci a vivere più consapevolemente, e quindi meglio.
non era, gentile minerva, mia intenzione confutare la bontà del tuo articolo, peraltro scritto in uno stile elegante e piacevole, ma solo confermare la fondatezza e lo spessore della tua riflessione
RispondiElimina@diagod56: Pensavo ancora a quel tuo "i nostri politici, secondo me, non sono così raffinati da elaborare certe strategie": come darti torto? Ancora più agghiacciante che avere una certa intenzionalità e una strategia per perseguirla - anche fosse diversa per ciascuno di noi e da ciò che io vorrei scegliere per me - almeno da lì si potrebbe aprire un vero dibattito su ogni argomento ci interessi come esseri umani :-(
RispondiElimina@Minerva: dici: tali carenze non possono anche essere dovute...? E io rispondo: certo, come anche la carenze in materia di reti per i disoccupati (era il controesempio che proponevo) potrebbero altrettanto (secondo me poco) cogentemente essere attribuite, chessò, a una cultura del successo che esclude dal nostro orizzonte la perdita del lavoro come fatto normale o almeno possibilissimo. Ma allora mi domando: forse che negli altri paesi europei hanno elaborato così meglio la morte e l'insuccesso da provvedervi più adeguati paracadute o non saranno piuttosto altri fattori, politici e di potere, a determinare le differenze? In effetti, accenni solo di sfuggita a un punto che io giudico essenziale e di nuovo specificamente italiano: per secoli tutto ciò che ruota intorno alla morte è stato un geloso monopolio della Chiesa cattolica e, a mio modo di vedere, la portentosa capacità che ha ancora questa isitutuzione di esercitare potere mortifica la possibilità stessa di un dibattito laico assai più di un presunto diffuso peterpanismo: non credo ci sia bisogno di ricordare come tutte le rilevazioni demoscopiche ci restituiscano l'immagine di un'opinione pubblica ampiamente favorevole a un fine vita improntato al rispetto della volontà dell'interessato che però non trova adeguata rappresentanza politica. Ti porto anche il mio esempio concreto: per ragioni mediche, non ci è stato possibile accedere all'hospice; in ospedale l'unica assistenza non strettamente medica di cui avremmo potuto godere era quella di un sacerdote, guarda un po'. Insomma, darò per scontato ciò che scontato non è, ma a me il problema continua a sembrare prima di tutto politico.
RispondiEliminaAccolgo le tue riflessioni, profonde ed articolate, come un prezioso inno alla vita; vita che anima esistenze il cui scorrere, spesso, viene quasi dato per scontato, percepito come immanenza non transeunte, fino al momento in cui essa stessa provvede a farcene assaggiare la caducità; un incitamento positivo a potare gli orpelli che gli attuali paradigmi sociali propongono, a resettare e focalizzare l’asse della nostra attenzione su una maggiore responsabilità del vivere.
RispondiEliminaLa morte, si sa, è la paura più grande dell’Uomo ed ogni società la governa e la elabora con i propri strumenti culturali; la nostra ha coltivato l’idolatria parossistica del corpo, il mito della sua perfezione, spinge a proiettare la nostra identità fuori da noi stessi per indurci a ricercarla in prototipi che non accettano manchevolezze; ciò l’ha resa un tabu, un ostacolo che si frappone a questo anelito frenetico, messo in atto attraverso “sapienti”e strumentali strategie della comunicazione, approdate nella peggiore nefandezza che uno Stato possa riservare ai propri cittadini: disciplinare la morte, normarla, alla stessa stregua della riforma della scuola: peccato che si stia parlando delle nostre vite.
@Arturo: la mia osservazione è nei termini che - a mio avviso - mancano tutte e due le elaborazioni, sia quella politica che quella socioculturale.
RispondiEliminaE sì, abbiamo una classe politica nella maggior parte prona a favorire gli interessi di soggetti che mortificano quotidianamente la volontà di chi è laico e vorrebbe per la propria esistenza e la propria fine (condotte magari entrambe nel non fare danno a nessuno) poter decidere per se stesso. Classe politica che se ne frega ampiamente della volontà della maggioranza della popolazione.
Ma questo poggia magari anche sul fatto che non ci sia una rivendicazione chiara di quelle volontà, e dell'importanza e dell'urgenza che diventino un problema all'attenzione della classe politica, da parte della società - forse anche perché, come diceva Sassicaia, la ricerca di una morale laica è profondamente personale e quindi il costituire una forza collettiva di rivendicazione di diritti al pluralismo è difficilissimo :-)
Intanto io invito a ragionare su questi temi tutti noi, e come appunto dicevo, a pensarci - anche solo (si fa per dire) per, di converso, cominciare con l'affrontare la vita senza indugi così come realmente la vogliamo, desideriamo, sogniamo ecc. E, poi, finché ce l'abbiamo, magari cercare anche di far sentire la nostra voce. Specie con chi pensa bene di candidarsi a qualche carica politica...
A me personalmente dà fastidio il concetto di morte come sconfitta. 'Ha perso la sua battaglia col cancro', sussurrato con voce sommessa e monotona di circostanza, è una frase che ho ascoltato molte volte al telegiornale. Puntualmente, esaurita la notizia, il tono della voce diviene più acuto e allegro e si passa a qualcosa d'altro, equivalente verbale del classico sospiro di sollievo per essere ancora dal lato dei vincitori.
RispondiEliminaFermo restando che ogni singola morte è una tragedia enorme, vorrei che fosse più diffuso il concetto che contro la morte non si fa a gara, perché altrimenti avremmo tutti perso in partenza.