Ritorno a Beirut [di Naj You]

Sono di nuovo a Beirut. Al controllo passaporti mi chiedono il luogo di provenienza, confusi dal nome orientale su un documento occidentale. Succede sempre anche in Italia, ormai ci ho fatto l’abitudine. La mia risposta in arabo provoca un sorriso divertito e un cordiale saluto di benvenuta. In poco tempo sono fuori dall’aeroporto: c’è il sole, il cielo è limpido e l’aria calda e accogliente. La prima volta che venni qui si era appena conclusa la guerra civile ed ero ospite di una zia che abitava in un quartiere-baraccopoli arrangiato nei pressi della pista dell’aeroporto. Le case erano di cemento mitragliato e lamiere e gli aerei scendevano talmente bassi che ad ogni atterraggio sembrava stessero precipitando su di noi. Dalle strade bucherellate emergevano sprazzi di terra rossiccia impregnata di puzza di benzina mista a odore di mare e cibo. Ero circondata da segni di vita e tracce di morte: l’orrore dei 150,000 civili ammazzati, intrappolato ormai per sempre in cumuli di macerie, proiettili conficcati e palazzi sventrati, conviveva con la vitalità spensierata dei sopravvissuti e dei bambini che facevano capolino da quegli stessi frammenti di case a rischio di crollo improvviso. La strada che conduce in centro è stata finalmente riaperta dopo il blocco dei giorni scorsi, causato dall’improvviso degenerare della crisi politica. Beirut è una metropoli-cantiere costruita su un territorio disomogeneo che va dal roccioso lungomare fino alle verdi montagne sovrastanti. In questi anni sono spuntati quasi dal nulla numerosi edifici che riflettono i raggi del sole e le calde onde del Mediterraneo. Sono in gran parte alberghi di lusso, centri commerciali all’americana o sedi di grosse multinazionali estere, costruiti con i fiumi di dollari provenienti dal ricco occidente. Ma ci sono ancora interi quartieri poverissimi e disperati abbandonati a se stessi da sempre. E’ difficile trovare vie di mezzo: l’estremo lusso squarcia la visuale dell’osservatore tanto quanto l’estrema povertà, confondendolo con apparenti e improvvisi sbalzi spazio-temporali dai contorni sfumati e psichedelici. Non si fa in tempo a ricostruire che si ricomincia a distruggere, e passato e presente diventano una cosa sola. Luoghi di culto cristiani e musulmani sono liberamente sparsi in ogni parte della città: moschee e chiese -cattoliche, ortodosse, maronite-sfiorano dolcemente gli animi dei fedeli con il flebile ma costante eco delle preghiere, amplificato dai microfoni dei minareti accompagnati dai ritocchi dei più decisi campanili. La moschea più maestosa è quella della piazza principale, conosciuta come Piazza dei Martiri, abbagliante sia di giorno che di notte nei suoi brillanti oro e turchese. Sulla cima della montagna si erge un Santuario dedicato alla Madonna, raggiungibile in funivia. Il Museo Nazionale di Beirut, colpito in passato dalla follia bellica, protegge ancora nelle sue teche le meravigliose eredità archeologiche delle antiche civiltà Fenicia, Romana, Ellenistica e Bizantina, attratte nei millenni dall’ancor oggi ambita posizione geografica a cavallo tra oriente e occidente. Giovani soldati dell’esercito nazionale sorvegliano con i mitra in mano i principali incroci stradali, protetti dalle ombre dei carri armati spenti. Il traffico non ha orari e scorre caotico intrecciandosi agli angoli dei quartieri che compongono la città. Per strada vecchie Mercedes scolorite corrono all’impazzata accanto a imponenti Suv americani, motorini sgangherati e pulmini impolverati senza portiere o finestrini carichi di donne e bambini al vento. Ogni tanto compare un mini-carretto di venditori ambulanti di cocomeri, patate o spremute d’arancia tenute al fresco da pezzi di ghiaccio. Chiassosi gruppi di scolaresche di ogni religione e ceto sociale affollano i marciapiedi interrotti per l’uscita dalle scuole arabe, francesi e americane. Uomini e donne guidano in modo folle, e non potrebbero fare altrimenti. Il codice della strada non esiste e l’unica regola vigente in questa giungla urbana trasformata in pista da corsa obbligata è la legge del più forte a premere l’acceleratore. Per le comunicazioni tra vetture c’è invece il clacson. Suonare il clacson serve a strappare la precedenza agli incroci, a non fermarsi agli stop, a prenotare un parcheggio in prima o seconda fila, a passare con il rosso, a tagliare la strada, a preannunciare un sorpasso da e verso qualsiasi direzione e, infine, a catturare l’attenzione di ogni essere umano avvistato a piedi, potenziale cliente per i migliaia di taxi circolanti. I mezzi pubblici scarseggiano, pertanto prendere un tassì o un pulmino-taxi è l’unico modo per spostarsi rapidamente se non si possiede una vettura. Il prezzo di una corsa è davvero irrisorio e si punta sul numero dei passeggeri. Il mio taxi senza finestrini procede spedito come gli altri, fermandosi comunque a caricare altre persone come se io non ci fossi. Dopo essere passata accanto ai disumani campi profughi palestinesi immersi nel fango e nella polvere, senza acqua e senza cibo, arrivo a destinazione nel popolare quartiere sciita, il cuore bollente della resistenza. Qui dovrebbe vivere in gran segreto uno degli uomini attualmente più ricercati al mondo, ovvero il capo politico e spirituale del partito Hezbollah, nato nel 1982 in seguito all’invasione israeliana del Libano. Gli sciiti hanno sempre creduto in lui anche per motivi religiosi: Hasan Nasrallah è un Sayyed, cioè un diretto discendente del Profeta. La sua forza politica è direttamente proporzionale alla percepita minaccia di un ennesimo attacco di Israele e al concetto di fratellanza e unità nazionale indipendentemente dal credo religioso, frequentemente enunciato nei suoi discorsi televisivi censurati dall’occidente. Il suo partito musulmano-sciita si è alleato politicamente con quello cristiano-maronita e oggi sono entrambi all’opposizione. In passato questi due gruppi religiosi rappresentavano gli estremi delle diseguaglianze sociali ereditate dalla colonizzazione francese, sfociate poi nella sanguinosa guerra civile. Dopo aver lasciato le valige decido di fare un giro a piedi nel quartiere per vedere cosa è cambiato stavolta. Un anno e mezzo fa venni a filmare e fotografare le voragini lasciate dai bombardamenti dell’estate 2006, e per poco non fui scambiata per una spia occidentale. Soltanto grazie ai miei documenti libanesi riuscimmo a convincere gli allarmati e armati addetti alla sicurezza a non arrestarmi. Non è invece andata altrettanto bene a un deputato francese che poche settimane fa è stato trattenuto per aver fotografato la zona sprovvisto di autorizzazione. Camminando a piedi vedo che anche qui è stato ricostruito più della metà di ciò che era stato abbattuto. Molti finanziamenti provengono dall’Iran, interessato alla questione libanese per le problematiche con Israele. Molti altri provengono invece dall’America e dall’occidente, interessati alla questione libanese per le problematiche con l’Iran. Un micidiale intreccio politico-economico mascherato dalle diversità religiose e dai presunti odi razziali reciproci. Al centro di questa ragnatela mortale è intrappolato il piccolissimo paese dei cedri, che da secoli tutto osservano senza scomporsi mai come se già sapessero come andrà a finire. La città vive di turismo ed è piena di mataaem, cioè luoghi per mangiare. Ci sono caffetterie e ristoranti di tutti i tipi, rosticcerie e gelaterie, pizzerie e fast food. Gli odori dei cibi più esotici e speziati si mescolano alle succulenti prelibatezze mediterranee, riempiendo l’aria di fame che non tutti potranno soddisfare. Tutto questo accanto a banche, supermercati, tabaccherie di narghilè e negozi d’abbigliamento prevalentemente “made in Lebanon”, ma non solo. Per i vestiti più chic o firmati è necessario recarsi al Hamra, ovvero nel ricco e lussuoso centro di Beirut, recentemente colonizzato dalle principali case di moda italiane e francesi. Osservo le donne e mi accorgo che il foulard per coprire i capelli è sempre meno usato e comunque in sintonia con jeans e magliette aderenti all’ultima moda, tacchi altissimi e unghie e bocche dipinte di rosso anche nelle più insospettabili figlie del Sud. Ogni tanto si intravede un’abaya in movimento, una sorta di mantella nera leggerissima e opaca che avvolge morbidamente le donne da capo a piedi, comoda soprattutto per uscire di casa senza cambiarsi d’abito. Sono le mogli dei più intransigenti, ma sono davvero poche rispetto alla maggioranza delle ragazze, bellezze floride e indistinguibili da quelle di casa nostra se non per la spensieratezza con cui affrontano l’esistenza. La tendenza generale è che qui non c’è tempo per deprimersi o lasciarsi imbruttire dalla malinconia : qui si vive che ogni giorno potrebbe essere l’ultimo, e si percepisce più che altrove. La guerra in tutto il Medio Oriente è un fischio acutissimo, un improvviso rumore assordante, i vetri che iniziano a tremare, i bambini a piangere tappandosi le orecchie e le persone ad abbracciarsi, inutilmente. Sotto il suono ininterrotto delle bombe il cervello è saturo di adrenalina, il battito accelerato, il respiro affannato tra vampate di calore e sudore gelido. I muscoli di gambe e braccia tremano spasmodicamente in preda al terrore, è iniziato l’infinito conto alla rovescia della nostra condanna a morte. Offuscati dal delirio si potrebbe fare qualsiasi cosa, l’ultimo gesto per il quale si sarà ricordati o dimenticati. Non si ha nulla da perdere, se non il proprio corpo avvelenato dalla rabbia e una mente irrecuperabile contaminata da impotenza, dolore e frustrazione sedimentatesi negli anni fino a diventare un veleno amaro e vischioso, un cancro inestirpabile che darà vita ad altro terrore e ad altre morti inutili. Giustizia e vendetta si uniscono e confondono in un abbraccio mortale, diventando l’unica arma di riscatto possibile contro il tragico destino riservato a questa gente da coloro che decidono per le vite degli altri stando comodamente seduti in poltrona. Adesso però siamo in un momento di pace, ed è come stare in Paradiso. Qualsiasi problema quotidiano scompare di fronte allo scampato rischio di andare a letto e rimanere spiaccicati sotto il proprio condominio sbriciolato. Perciò, nei momenti di calma tra una guerra e l’altra, regna una leggerezza d’animo lontana anni luce dai turbamenti esistenziali di noi occidentali. I disturbi psicologici e le nere depressioni sono solo un capriccio di pochi, di quelli che non hanno niente di serio a cui pensare e possono permettersi l’acquisto dei costosi farmaci non rimborsati dallo Stato. La mia visita in questi giorni coincide con l’apparente soluzione di una grave e ormai lunghissima crisi politica. Nonostante la caduta del governo nel novembre di due anni fa, il Primo Ministro Siniora non si è dimesso, forte dell’appoggio delle democrazie occidentali che hanno continuato a sostenerlo anche se costituzionalmente illegittimo. Da allora si è rintanato nel palazzo governativo suscitando la protesta di migliaia di giovani libanesi rimasti accampati mesi e mesi sotto le sue finestre con tende e tamburi. Un sit-in tanto pacifico quanto inutile. Solo qualche giorno fa, dopo l’ennesimo rinvio delle elezioni presidenziali, aveva giocato la sua ultima carta e ordinato di arrestare alcuni membri vicini ai partiti dell’opposizione cristiano-musulmana. Il direttore dell’aeroporto era stato destituito in quanto simpatizzante sciita e in poche ore il Libano era isolato dal resto del mondo con i suoi abitanti prigionieri del proprio destino. Le strade per il Sud e per Damasco erano state bloccate, l’aeroporto, le scuole e le università nazionali e internazionali chiuse a tempo indeterminato. Poteva fuggire solo chi aveva la doppia cittadinanza e la protezione dell’Ambasciata di appartenenza, sempre e comunque i più ricchi e fortunati. Si erano accesi i primi focolai di guerriglia urbana, alcuni manifestanti erano stati uccisi, alcuni quartieri occupati, negozi saccheggiati, il tutto secondo uno schema già visto e rivisto. Erano iniziate le scorte di viveri nei pochi supermercati ancora aperti. Ogni tanto saltava la corrente, ma solo in periferia. Le fazioni rivali avevano iniziato a scontrarsi anche nel nord del paese, su internet era apparso il video di un orrendo massacro prontamente oscurato dopo 24 ore. Dicevano fosse stato compiuto su mandato del governo. Sembrava la fine. Invece, dopo le tensioni dei giorni scorsi, stasera ci saranno i festeggiamenti per la crisi risolta. Grazie alla mediazione di un paese del Golfo Persico il governo ha ritirato gli ordini di arresto emanati contro i rappresentanti dell’opposizione, scoperchiando in extremis una pentola a pressione che era sull’orlo del collasso. Dopo ore e ore di riunioni e consultazioni è stato finalmente eletto il nuovo Presidente della Repubblica con il consenso di tutte le parti. Per tradizione doveva essere cristiano-maronita, e la tradizione è stata rispettata: è il Generale Suleyman. Un grandissimo sospiro di sollievo pervade tutto il Paese. In poche ore tutto torna alla normalità. Le saracinesche vengono rialzate, scuole e università riaprono come se non fosse mai successo nulla. La gente non parla di politica con gli sconosciuti, dall’altra parte non si sa mai chi si ha davanti. Cristiano o musulmano? Se cristiano, ortodosso o maronita? Se musulmano, sunnita o sciita? I tratti somatici delle diverse razze sono ormai indistinguibili, anche tra i figli degli emigrati all’estero i cui geni si sono mescolati a quelli degli altri continenti; la lingua parlata è la stessa come pure la terra che ogni giorno viene calpestata. In fondo siamo tutti libanesi e una sola cosa è certa: nessuno vuole un’altra guerra, le ferite del passato bruciano ancora. Scendo in strada anche io. La città si è riempita dei colori di tutti i partiti politici e delle immagini dei prigionieri di guerra e dei martiri. I clacson suonano più all’impazzata del solito e si spara non per uccidere ma per festeggiare l’ennesima rinascita. Nella bellissima piazza centrale viene montato un palco, proprio sotto il palazzo del governo, e organizzati concerti con i cantanti più amati. Artisti e costumi tradizionali appaiono all’improvviso come da un gigantesco teatro all’aperto. I Drusi della montagna, considerati eretici dall’islam tradizionale, sono i più pittoreschi: turbante, baffi all’insù e pantaloni alla zuava in luccicante rosso bordeaux accompagnato da scimitarra, vera o finta non si sa. Decine di fuochi d’artificio colorati risvegliano fischiando il cielo della notte, elettrizzato da un’atmosfera a metà tra il capodanno e il carnevale, ma forse più carnevale perché potrebbe essere uno scherzo e fidarsi è bene ma non fidarsi è meglio. Il centro si riempie di talmente tanti giovani che non c’è spazio per camminare. E’ incredibile la velocità con cui si riesce a passare da uno stato di guerra imminente a uno di pace apparente. In ogni angolo della piazza ci sono gruppetti di ragazzi che ballano il tradizionale dabkè, ammaliati e storditi dai tabacchi profumati e dolciastri dei narghilè con retrogusto proibito. Uomini e donne si muovono in cerchio tenendosi per mano e disegnando ampie figure omogenee governate dai tamburi impazziti. I passi sono veloci e non semplicissimi ma nessuno trova difficoltà, a parte la sottoscritta. La testa gira, fa caldo, si suda, manca l’aria, eppure il corpo non riesce a fermarsi, travolto dall’euforia di una felicità tanto intensa quanto effimera. Passati i primi giorni di festa, decido di lasciare Beirut e scendere verso Sud, nei pressi del contingente italiano dell’Unifil. Il paesino verso cui sono diretta era l’ultimo al confine con il territorio occupato nel 1982. Quando vidi il paesaggio la prima volta sembrava una cartolina ingiallita di inizio novecento. Colline brulle con rocce e cespugli spinosi sparsi qua e là, tratti di vegetazione più fitta e boschiva, un fiume tra le montagne in cui ci si faceva il bagno vestiti (il costume era ed è ancora haram, cioè peccato) e pastori e mucche e agnelli a pascolare con i campanelli al collo. Ogni 5 km un posto di blocco su bianche strade sterrate e polverose. La corrente elettrica era ancora un’utopia. Più giù, al confine, il territorio occupato da cui partivano sibilanti razzi che a volte colpivano i campi e a volte le abitazioni. “Quando colpirono casa nostra fortunatamente non c’eravamo. Una granata era esplosa in giardino e le schegge avevano spezzato le inferriate delle finestre, trasformandole in pericolosissimi proiettili lunghi decine di centimetri. Uno di questi si era infilato in un mobile e da lì conficcato nel muro per metà della sua lunghezza. Un’altra volta un missile colpì l’ultimo piano abbattendo tutta la parete della cucina. Spesso, di notte, si sentivano colpi di mitra, elicotteri e carri armati in movimento: erano i combattimenti tra resistenza e occupanti. Il giorno dopo c’era sempre un funerale”. Dall’altra parte del filo spinato che segnava il confine, su una collinetta, spiccava un basso edificio di cemento suddiviso in cellette grandi sì e no 1 metro quadrato prive di finestre, nelle quali i prigionieri di guerra libanesi venivano ammassati e torturati. Le mura delle celle erano intasate da un odore nauseabondo. C’è sempre stato il divieto di filmare o fotografare la struttura; durante l’ultima guerra le bombe israeliane ne hanno cancellato ogni traccia, lasciando solo l’eco delle urla dei torturati morti o sopravvissuti a vagare come fantasmi nei boschi sottostanti. Al paesaggio di allora si sono aggiunte meravigliose ville con giardini e pergolati costruite da chi ha fatto fortuna all’estero e viene qui a villeggiare, attratto dal clima fresco e ventilato. Sono invece uguali ad una volta le casette dei poveri contadini o artigiani che, iscrivendosi al partito della resistenza hezbollah, arrotondano le scarse entrate mensili con un sussidio che garantisce loro il cibo per tutta la famiglia. Arrivo nel paesino ed entro in una di queste basse abitazioni di cemento circondate dalle colline. Le finestre non hanno vetri e l’arredamento è costituito da una grande stuoia di paglia con sopra dei cuscini disposti lungo le pareti e a fungere da divani. “La mia antenata nacque e crebbe in una casa come questa. Era devotissima e misteriosa. All’età di quindici anni venne data in sposa a un commerciante Sayyed, ma non per questo smise di lavorare. Con i risparmi accumulati acquistò una mucca per la quale era invidiata da tutto il paese, finché una volta, incinta, venne rabbiosamente malmenata da una vicina delirante per i morsi della fame. Fu una madre fecondissima, ma dopo qualche anno il marito la derubò e si risposò altre tre volte, generando un’infinità di discendenti. Non si arrabbiava né scomponeva mai, ma da allora chiunque le mancava di rispetto veniva colpito da maledizioni che puntualmente si avveravano”. Mi vengono offerti un tè e dei semi di zucca. Alle domande da dove vengo e com’è la vita in Italia rispondo sinteticamente, mi vergogno della mia condizione privilegiata. Quando mi chiedono se si sta meglio qui o lì rispondo con diplomazia: hasab, dipende. I bambini più piccoli, scalzi e in mutande e canottiera, giocano per terra con delle mollette per stendere la biancheria; la ragazza più grande sta invece badando al pranzo sul fuoco. Oggi si mangia riso con lubia (taccole) al pomodoro. E poi pane, olive, uova, formaggio caprino e yogurt. La carne più economica è il pollo ma in generale viene consumata in coincidenza delle feste religiose o se si hanno ospiti importanti. Il pranzo è pronto e mi unisco a loro come la tradizione impone anche quando l’ospite è inatteso. Si pranza normalmente nei piatti, seduti per terra a gambe incrociate su una stuoia apparecchiata con una tovaglia plastificata. Il primo a essere servito è il capofamiglia. I bambini, seduti composti, mangiano tutto voracemente senza lamentarsi né del sapore né della quantità. Anche la verdura viene assaporata e gustata senza fare capricci. Dopo aver mangiato prendono un portafoto e mi raccontano del primogenito morto nei combattimenti, delle televisioni rubate e delle case bruciate dagli occupanti. Eppure loro sono orgogliosi di avere un figlio che si è sacrificato per la Patria. Ne parlano lucidamente e con tranquillità, come se fosse lì ad ascoltarli, certi che prima o poi lo rincontreranno. La morte non è perdita di una parte di se stessi ma solo del corpo del defunto. Le famiglie povere del Sud sono ancora strutturate in maniera patriarcale, tanti figli nonostante l’incertezza economica e ragazze che vengono date in sposa giovanissime al primo buon partito che chiederà loro la mano. Grazie alla dote offerta dal futuro sposo potranno acquistare degli abiti da signora, scarpe con i tacchi e qualche gioiellino d’oro da indossare il giorno del fidanzamento ufficiale (katab kteb, letteralmente “scrittura del contratto”) e quello del matrimonio. Il fidanzamento serve a frequentarsi e conoscersi il più possibile nel pieno rispetto della religione, tutelati da un contratto che potrà essere disdetto da entrambe le parti in caso di incompatibilità. Mi chiedono se sono sposata, dico di no, come mai, sei grande. Spiego loro che in Italia non è più così, non ci sposa tanto presto, anzi, ma la cosa li stupisce ancora di più perché non concepiscono l’idea di vivere senza fare figli o di farli “da vecchi”: è contro natura. Sorrido, le problematiche economico-sociali che assillano la generazione italiana sono troppo lunghe e complicate per essere spiegate, preferisco passare per zitella. La mia visita è terminata, saluto e me ne vado. “Torna a trovarci quando vuoi”. “Se Dio vuole, tornerò”. Rientro in città con la sensazione di aver fatto l’ennesimo sbalzo spazio-temporale. Quando arrivo è ormai sera tardi e il centro di Beirut è bloccato dal traffico dei giovani benestanti pronti a tuffarsi nella vita notturna. La voglia di vivere e divertirsi è più forte di qualsiasi altra cosa. Canzoni arabe e straniere si mescolano nell’aria, uscendo a tutto volume dai finestrini abbassati delle automobili nuove fiammanti. Alberghi, ristoranti, pub, discoteche e casinò sono a pochi metri dal mare, illuminatissimi e brulicanti di persone. Sembra di essere nel pieno delle vacanze estive: gruppi di ragazzi, passeggini e coppie avvinghiate camminano su e giù con i gelati in mano. L’aria profuma di acqua salata e le stelle ricambiano gli sguardi con luccicanti occhiolini che movimentano il cielo della notte. Ma il buio nasconde i resti di un passato che sembra voler rincorrere queste vite per l’eternità. Dopo qualche giorno di tranquillità e gli scoppiettanti festeggiamenti c’è di nuovo qualcosa che non va. Ieri sera un ragazzo è stato accoltellato alla schiena in mezzo alla strada e in circostanze misteriose. Alcune vie sono state bloccate per qualche ora e sono aumentati i soldati dell’esercito agli angoli delle strade. Dall’America sono appena arrivate in regalo centocinquanta gigantesche jeep che aiuteranno a “mantenere l’ordine pubblico”. L’ex primo ministro si stava finalmente ritirando dopo gli accordi di Doha ma è stato prontamente richiamato all’ordine da una telefonata intercontinentale. E così, nonostante tutto, è stato riconfermato anche a capo del nuovo governo. In Libano è ricominciato il conto alla rovescia. Sguardi e bocche assetate e ingorde sono puntate qui da secoli, e lo saranno fino a quando non avranno spremuto questo succoso frutto fino all’osso. “Abbonderà il frumento nel paese, ondeggerà sulle cime dei monti, il suo frutto fiorirà come il Libano”. Dicono che d’estate ci sarà un’altra guerra.

Questo post è stato pubblicato il 14 dicembre 2008 in . Puoi seguire i commenti a questo post attraverso il feed RSS 2.0. o se vuoi lasciare un commnento.

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