Secondo il rapporto della Commissione Europea del 3 aprile 2003 (Rapporto Busquin), così come secondo il Rapporto della Commissione Dulbecco sulle Cellule Staminali voluta dall'allora Ministro della Salute Umberto Veronesi, il settore delle cellule staminali è uno dei più promettenti nel campo delle biotecnologie, e potrebbe condurre a importantissimi risultati nella cura delle malattie cardiovascolari, delle patologie del sistema nervoso, del diabete e di altre malattie rare.
Secondo le stime più attendibili, in Italia dovrebbero esserci circa 200.000 embrioni congelati prima del 2004: la legge 40 da un lato impedisce di impiantarli, e dall'altro proibisce che vengano utilizzati per la ricerca scientifica, col risultato che quegli embrioni resteranno a marcire nei congelatori finché putrefazione non intervenga.
Posto che ciascuno è libero di avere le proprie opinioni, e di perseguirle nel modo che ritiene più opportuno, sarebbe auspicabile adoperare quel minimo di coerenza che ai paladini della vita, sia pure in altre circostanze, sembra mancare: a voi risulta, tanto per fare un esempio, che questi illustri difensori dei valori cattolici, tra i quali la famiglia naturale fondata sul matrimonio tra un uomo una donna, si astengano dal divorziare allorché ne avvertano il bisogno? A me, onestamente, pare di no.
Orbene, supponiamo (com'è ragionevole supporre) che la ricerca sugli embrioni, magari quella effettuata all'estero, produca nel prossimo futuro terapie e farmaci utili a guarire determinate malattie: secondo voi i fanatici che si sono stracciati le vesti per proibire quella ricerca in Italia, ove si trovassero nella necessità di assumere quei farmaci o di utilizzare quelle terapie, avrebbero la coerenza di astenersene? Oppure, come me, siete convinti che se ne strafotterebbero, ingoierebbero le pillole e si curerebbero, utilizzando per primi i risultati di ciò che fino al giorno prima si sono sgolati per impedire?
Io, da parte mia, una proposta l'avrei: perché non dichiarano, questi stinchi di santo, che nel futuro non utilizzeranno mai gli eventuali rimedi che dovessero scaturire, direttamente o indirettamente, dalla ricerca scientifica sulle cellule staminali embrionali?
Perché non lo fanno pubblicamente, magari convocando una conferenza stampa, mettendo il loro impegno per iscritto e consegnandolo a un notaio che si renda garante del suo adempimento?
Domandare è lecito, si dice, e rispondere è cortesia: proviamo a chiederglielo, e vediamo se saranno così cortesi da risponderci.
D'altronde, si tratta di una questione di valori.
O sbaglio?
Impegnatevi
Questo post è stato pubblicato il 21 febbraio 2008 in integralismo,ipocrisia,Legge 40,proibizionismo. Puoi seguire i commenti a questo post attraverso il feed RSS 2.0. o se vuoi lasciare un commnento.
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Come mai funzionano meglio quelle adulte?
RispondiEliminaSe dovessimo seguire i DIKTAT della chiesa,oggettivamente i cattolici osservanti non dovrebbero accettare delle cure che derivino dalla ricerca medica effettuata grazie alle autopsie,visto che l'umanità ha subito gravi perdite grazie all'ottusa visione cristiana del "Non profanare il corpo dopo la morte con l'autopsia".
RispondiEliminaGrazie al Medioevo,dominato dalla Chiesa,ci stiamo portando dietro delle piaghe che probabilmente,grazie alla scienza libera ed all'intelletto umano,avremmo già risolto da uno o più secoli.
Caro metilparaben,
RispondiEliminati lascio un articolo che illumina non poco a riguardo
http://www.darwinweb.it/news~id~59.htm
é un po vecchio ma va ancora benone. Io lavoro in questo settore e l'artciolo ha il merito di sottolineare come gli sitituti legati a d enti religiosi se ne fottono più o meno alla grande, quando si tratta di prendere soldi extra-Italia. Ciao e complimenti per il blog
Metilparaben,
RispondiEliminama come fa un individuo a ipotecare il futuro e affermare adesso che cosa desidererà quando, magari, le condizioni saranno diverse e potrebbe aver già cambiato idea?
(forse non si sente ma c'è dell'ironia)
Fosse per me il papa e la sua combriccola non toccherebbero nemmeno un'aspirina, ma tant'è..
RispondiEliminaCaro Shaadow, portando il tuo ragionamento fino in fondo si potrebbe dire che nessun cattolico osservante potrebbe usufruire di nessuna tecnologia o conoscenza che sia figlia del progresso scientifico, progresso scientifico che essi hanno rifiutato in blocco, da galileo in poi. Tutto quello che noi utilizziamo- farmaci, mezzi di trasporto, mezzi di comunicazione, ecc ecc- esiste grazie allo sviluppo delle conoscenze successive alla nascita della scienza moderna, e cioè appunto dopo Copernico, Galileo e Newton. La chiesa si è opposta praticamente a tutto: all'abbandono del sistema geocentrico, alle autopsie, ai vaccini, alla libera circolazione delle informazioni, alla teoria dell'evoluzione naturale, all'esplorazione spaziale, ai trapianti, alla terapia del dolore, ma soprattutto all'idea in se' della ricerca scientifica. Salvo poi chiedere scusa molto tempo dopo......o salvo sviluppare un catalogo di rispostine pronte (quelle del tipo "però le università sono state fondate dai papi", "però copernico era credente", ecc) a cui i clericali attingono disperatamente quando vengono messi alle strette su quest'argomento.
RispondiEliminaPRECISAZIONE:
RispondiElimina1)non rifiuto in blocco la tecnologia, casomai la uso.
2) Colombo ha scoperto l'america prima del 1630 circa, 12 ottobre 1492, giusto?
3) Ignazio di Loyola ha donato, da morto i suoi resti perchè venissero usati per una lezione di anatomia.
4)le leggi dell' ereditarietà sono state scoperte da Mendel che era un abate.
5)la prima università del mondo è stata fondata a Bologna in pieno medioevo, quando la città era un dominio dello stato pontificio.
6)non attingo dispeeratamente a delle balle come voi , se non vi piace allora è un altra storia, questa volta voglio essere gentile.
SALUTI AD ALEG.
P.S probabilmente vi posto nei commenti un pò di articoliche chiariscono bene quello che ho detto, vi anticipo che gli autori non possono proprio considerarsi dei pirla. Ciao!
Se ti presenti alle prossime elezioni, mi avverti, così ti voto e ti faccio pure da attivista?
RispondiEliminan°1
RispondiEliminaNé guelfi né ghibellini. Solo italiani a caccia d'identità
di Roberto Pertici
L’ipotesi ventilata in un recente (e per molti aspetti notevole) articolo di Aldo Schiavone comparso sul quotidiano “la Repubblica” del 5 febbraio (il nostro paese starebbe per essere sommerso da un’«ondata neo-guelfa» fomentata dalla Chiesa e da alcuni ambienti “laici”, portatori di un’ideologia vagamente post-maurrassiana) è l’ennesimo parto di una cultura che ha quasi fisiologicamente bisogno di un “nemico”, contro il quale chiamare alla vigilanza e alla mobilitazione: fingit creditque, come si diceva nel latinetto di una volta. Ciò che soprattutto colpisce in simili ragionamenti è tuttavia un altro aspetto: l’incapacità di comprendere che i conflitti culturali che percorrono in questi anni la società italiana non si svolgono più fra Stato e Chiesa (come poteva accadere fino a un secolo fa), ma tra cittadini italiani; fra cittadini italiani di orientamenti politici, culturali e religiosi diversi, che cercano (tutti) di far sentire la propria voce e le proprie idee nello spazio pubblico. Continuare a rappresentarli come l’ennesima riproposizione del canonico conflitto Stato-Chiesa discende dalla convinzione (non esplicita, ma fermissima) che la parte cattolica, identificata appunto con la Chiesa, sia rimasta sostanzialmente un corpo estraneo alla società nazionale (lo Stato) e in potenziale contrasto con essa; un po’ la rappresentante e la portavoce di una potenza straniera. E’ proprio così? Il mondo cattolico è una sorta di ospite nel paese Italia, che – come tutti gli ospiti - è ben accetto finché ne rispetta le “regole”?
Il discorso di Schiavone ripropone così il problema del rapporto fra cattolicesimo e nazione italiana. Non a caso vi viene evocato il neo-guelfismo, il movimento che, nella fase centrale del nostro Risorgimento, con enorme (ma effimero) successo, cercò di coniugare proprio cattolicesimo e italianità. Perché “neo-guelfismo”? Perché l’ideale “guelfo” (Schiavone lo avverte benissimo) era molto più antico ed era stato elaborato fra Cinque e Seicento, quando altrove si erano appena formati i grandi Stati nazionali: «Si diceva agl’Italiani: - Avete perduto la nazionalità e l’indipendenza, (…), non avete più la civiltà d’una volta, siete un popolo decaduto. Ma consolatevi e pensate che, poiché il Papa è in Italia, se il papato è potente, questo potere si riflette sulla terra ove risiede; avvezzatevi a considerarvi non come popolo italiano ma come il primo de’ popoli cattolici». Sono parole di Francesco De Sanctis, ovviamente polemiche, che tuttavia sintetizzano efficacemente lo spirito “guelfo”.
Dopo il 1843, Vincenzo Gioberti lo ricuperò e lo rilanciò come un grande mito politico, ma finalizzandolo - questa volta - all’indipendenza nazionale: essa doveva essere realizzata attraverso una federazione fra gli Stati della penisola e sotto l’egida benigna del Pontefice, che se ne sarebbe fatto garante di fronte alle potenze europee. L’elezione di Pio IX sembrò per un momento rendere plausibile questo progetto: per alcuni anni le aspirazioni nazionali e il sentimento religioso non sembrarono più in contrasto. L’Italia era un paese naturaliter cattolico - questo era il nucleo ideale del giobertismo – e non vi era possibile (né auspicabile) un qualsiasi progresso, se non conciliandolo con quella sua tradizione.
Fu un’operazione geniale: con essa l’abate piemontese operò un clamoroso “taglio delle ali”, da una parte escludendo dall’opinione nazionale l’estrema destra cattolico-legittimistica (il gesuitismo), dall’altra l’estrema sinistra rivoluzionaria (le sette). Quelle della grande stagione del moderatismo, alla vigilia del 1848, furono veramente le “giornate del nostro riscatto”, perché il mito neo-guelfo (fatto assai raro nella vita italiana) intendeva avere effetti inclusivi, non divisivi, e formare un vasto fronte patriottico-nazionale, in seguito non più realizzato. Sappiamo come andò a finire: l’allocuzione pontificia del 29 aprile 1848, la fuga di Pio IX da Roma, la repubblica romana segnarono la fine del sogno. Poi si ebbero, da una parte, le leggi Siccardi, quella sui conventi, le irregolarità elettorali del 1857, l’invasione dell’Umbria e delle Marche in spregio a ogni diritto internazionale (lo scriveva lo stesso Cavour), la liquidazione dell’asse ecclesiastico, la presa di Roma; dall’altra le scomuniche, la negazione dei sacramenti ai moribondi, i non possumus, il Sillabo, Mentana, il non expedit.
Insomma, l’unità d’Italia (di una nazione che era stata considerata, fino a qualche anno prima, naturaliter cattolica) avvenne invece contro la Chiesa. Lo si ripete spesso, ma non sempre se ne tengono presenti fino in fondo le conseguenze: la scarsa legittimazione del nuovo Stato, l’impossibilità di un partito cattolico-conservatore che potesse garantire un vasto consenso alla nuova classe dirigente, curandola da quella paranoia istituzionale che fu alla base delle sue non infrequenti tentazioni autoritarie. Soprattutto il bisogno di promuovere un processo di “nazionalizzazione” privo di ogni contenuto cattolico, ma che rispondesse alla sfida di quella tradizione, la spinse precocemente verso una politica estera di prestigio internazionale, da “sesta delle grandi potenze”, che era assolutamente sproporzionata rispetto alla consistenza e alle risorse del giovane Regno: “Ma che cosa intendete fare a Roma? (…): a Roma non si sta senza avere dei propositi cosmopolitici. Che cosa intendete fare?”». Questo fu il concitato richiamo che Theodor Mommsen rivolse a Quintino Sella una sera del 1871 e gli uomini della nuova Italia raccolsero la sfida: la scienza laica e la grandezza nazionale, questo fu il loro programma.
Lo avvertiva (e lo deprecava) un uomo della vecchia Destra, il cavouriano e cattolico Stefano Jacini: “Siete dei megalomani! – questo all’ingrosso il nucleo del suo discorso – Altro che Triplice Alleanza e colonie africane! Se foste consapevoli dei veri interessi del paese, cerchereste una qualche intesa col Papa, magari accettando una garanzia internazionale dei diritti che gli avete riconosciuti con la legge delle guarentigie; vi conquistereste la fiducia del cattolicesimo organizzato e delle masse contadine. Cessereste di concepire lo Stato come uno strumento di colonizzazione interna: la realtà italiana è variegata e ricca di corpi intermedi, quindi niente centralismo alla francese! Soprattutto dovreste mettere mano alle condizioni delle popolazioni rurali: per renderle “italiane”, è necessario alleviarne la tremenda miseria». Invece la classe dirigente italiana (la più anticlericale e massonizzante, quella della Sinistra) strinse la Triplice, andò in Africa, si lasciò affascinare dal mito di Bismarck. Plasmò una “religione della patria”, in cui questa veniva elevata a valore ultimo, in riferimento al quale ogni norma di condotta trovava il suo significato e la sua giustificazione: Salandra poi avrebbe parlato di “sacro egoismo”.
Non a caso l’Appello a tutti gli uomini liberi e forti con cui Luigi Sturzo riportava nel 1919 i cattolici nella politica italiana aveva accenti in qualche modo “jaciniani”, cioè di critica radicale alla politica dello Stato post-unitario: decentramento, libertà della Chiesa, legge elettorale proporzionale, questione contadina, liberismo, wilsonismo.
E quella di Sturzo non era Italia?
La definitiva confluenza del mondo cattolico nella società nazionale ebbe luogo con la Conciliazione del 1929, sotto la dittatura. Ma la centralità che esso era destinato ad assumervi la si vide dopo la guerra, nelle elezioni del 1946 e del 1948. Si aprirono i “giorni dell’onnipotenza”, in cui a molti parve che la vecchia utopia giobertiana si stesse finalmente realizzando. Ovviamente non era così: vi erano altre Italie, che collaborarono con quella cattolica per la ripresa e lo sviluppo del paese. Ma l’altra maggiore, quella comunista, diede a lungo per scontato che Gioberti avesse in fondo ragione: che non servisse a nessuno dar di cozzo contro questo carattere “cattolico” della nazione italiana e che fosse preferibile sviluppare la nuova democrazia col beneplacito della Chiesa, evitando di riaprire le lacerazioni di fine Ottocento.
Fu la famosa “pace religiosa” assicurata dall’art. 7 della Costituzione: concetto che poi è stato molto criticato e su cui si è anche pesantemente ironizzato, ma che ha validamente contribuito a quella compattezza sulle questioni essenziali (al di là dei contrasti più feroci) che oggi molti individuano nella classe dirigente post-bellica e che rese possibile al paese di attraversare, all’interno di un quadro democratico, una fase di convulsa modernizzazione, con le dirompenti conseguenze politico-sociali a tutti note. Per una sorta di eterogenesi dei fini (l’osservazione è di Pietro Scoppola) proprio la modernizzazione garantita dal governo del “partito cattolico” doveva segnare la fine della “nazione cattolica”: i referendum del 1974 e del 1981 manifestarono la portata di tale processo.
Ha vinto, dunque, l’Italia laica, quella che si riconosce nella tradizione del quotidiano su cui Schiavone ha pubblicato il suo articolo? E’ difficile rispondere positivamente a questa domanda. Nel 1957, Nicola Matteucci osservava che uomini come Piero Calamandrei erano stati in fondo degli «sconfitti per tutta la vita: sconfitti dal fascismo, che per vent’anni aveva fatto contro di loro la storia d’Italia, sconfitti nella resistenza e nella liberazione, quando la storia d’Italia finì ancora per esser fatta senza di loro, dagli uomini che si trovavano inseriti nei grandi schieramenti popolari». Da allora si sono avute almeno altre due sue sconfitte storiche: quella del 27 marzo 1994, allorché, con la vittoria elettorale di Berlusconi, quel mondo non fu capace di capitalizzare i frutti della crisi della prima Repubblica, che sembrava averlo lasciato padrone pressoché esclusivo dell’agone politico, e l’altra del 12 giugno 2005, quando, con referendume sulla fecondazione assistita, fallì nel tentativo di riaprire e completare il ciclo iniziato coi referendum del ’74 e dell’81. Ma poi quella tradizione è sempre la medesima? A ben guardare, essa presenta oggi una sempre più evidente mutazione culturale, che la sta allontanando dalle proprie culture classiche di riferimento (Croce, Salvemini e Bobbio) e avvicinando a impostazioni sostanzialmente ateistiche e scientistiche.
Se quindi Messenia piange, Sparta non ride. Questo fallimento dei progetti di lunga durata intorno alla nazione italiana, delle varie “idee di Italia” che si sono succedute nella sua storia recente, e l’incapacità di elaborare qualcosa di nuovo e di duraturo, è forse il nocciolo vero della crisi attuale. Ma proprio questa situazione di crisi dovrebbe indurre tutte le componenti della società nazionale ad adottare una concezione inclusiva di nazionalità: così, se è necessario che il vario mondo cattolico, pur rivendicando giustamente la sua italianità e la propria “idea d’Italia”, rinunzi a ogni “giobertismo” di ritorno e a forme di risentimento storico dal sapore puramente recriminatorio, l’Italia laica deve giungere a considerarlo fra le radici principali della nazione italiana (non un detrito del passato), e quindi a riconoscergli il diritto di far pesare la sua sensibilità e i suoi presupposti religiosi e culturali nel dibattito pubblico. Ci saranno, certo, nuovi conflitti, ma saranno conflitti fra coscienze, tutte di pari dignità e di pari cittadinanza. Non fra i rappresentanti dell’Italia civile e gli epigoni della Controriforma (non di quella vera, naturalmente).
n°2
RispondiEliminaTorti e ragioni dei laici
di Raimondo Cubeddu
I laici erano un tempo coloro i quali dinanzi alle verità rivelate, alle grandi tradizioni culturali, religiose, politiche, etc., alle decantate virtù taumaturgiche del progresso e delle scienze, rimanevano freddini e talora anche un po’ scettici. Si distinguevano, in questo, dai positivisti, più tardi detti anche scientisti, i quali credevano invece che la scienza avrebbe ridotto ogni problema umano; sia esistenziale sia sociale. Far tabula rasa col passato e con i suoi orpelli e riti, secondo il Manifesto del Circolo di Vienna, era condizione necessaria, anche se forse non ancora sufficiente, per dare vita ad un uomo nuovo in un mondo nuovo, ma entrambi felici perché liberati dal bisogno grazie alla ‘nuova economia’ e dalle insensatezze delle religioni e delle morali tradizionali.
Le cose, come noto, non sono andate proprio così; ma senza mettere più di tanto in discussione l’assunto che per il progresso della società, e per la sua ordinata convivenza, fosse opportuno, se non addirittura necessario, mettere una sorta di ‘laica mordacchia’ alla religione e soprattutto ai suoi esponenti.
Spirito di vendetta e di rivalsa si intrecciano così con la paura che le religioni avrebbero potuto ancora una volta porre ostacoli a quel progresso da cui ci si aspettava tanto. Da elemento costitutivo, nel bene e nel male, della civiltà occidentale, la religione cristiana rischia così di diventare elemento di perturbazione di un Occidente che si sogna felice e soddisfatto se finalmente liberato dai pericoli che per la convivenza civile e per lo sviluppo delle scienze possono pervenire da quell’interesse ‘eccessivo’ per la salvezza delle anime del quale, con esiti infausti, le chiese cristiane hanno purtroppo dato prova nei secoli passati.
Di qui, senza indugiare sulla legittimità dei risentimenti e sul pericolo che quell’eccessiva attenzione possa manifestarsi nuovamente, la domanda se una società possa fare a meno della religione o –il che è però pressoché lo stesso– se realisticamente possa confinarla in un recinto, fosse anche quello della coscienza individuale. In altre parole, se la politica o la scienza possano oggi porre dei limiti alla religione così come, nel passato, essa li aveva posti alla politica e alla scienza.
Riconosciuto anche che politicamente ha un senso chiedersi se, in osservanza a convinzioni o a tradizioni religiose, si debba porre un limite a certe tipologie di ricerca scientifica sapendo che altri non lo faranno e che questo avrà comunque delle conseguenze, l’idea di confinare la religione nella sfera privata e di porre limiti alla professione delle dottrine religiose presenta più di un motivo di problematicità. E questo, paradossalmente proprio in considerazione del fatto che se si esce da una dimensione cristiana, si incontrano anche parecchie difficoltà a stabilire se un insieme di credenze possa qualificarsi come religione. E del fatto che la ‘pericolosità’ attribuita da certi laici al cattolicesimo di Benedetto XVI è poca e comunque risibile cosa rispetto al pericolo rappresentato dalla diffusione delle idee di non poche di quelle centinaia di religioni definite e catalogate come tali dall’Onu.
Che una religione possa essere ‘pericolosa’ per la sopravvivenza di una società, o per definirla come ‘buona’ secondo certi canoni (operazione che farebbe tremare ogni ‘vero laico’ giacché significherebbe valutarla secondo princìpi universali ed eterni la cui esistenza egli cerca disperatamente da secoli arrivando sempre alla conclusione che al momento esiste soltanto un ‘meglio’ ma non un ‘bene’), non è in discussione e lo stesso può essere detto di molti insiemi di idee, credenze e pratiche di vita.
Pensare che una religione possa essere pericolosa per la società significa quindi immaginare che una società sia buona se ha certe caratteristiche che meritano o necessitano di essere protette. Il punto è che non è scontato, né pacifico, chi, in una democrazia, possa o debba assumere la funzione di definire tutto ciò e difendere la società dai pericoli che possono venirle dalla religione (e perché mai non anche dalla scienza e dagli scienziati così come dai musicisti rock, dai cineasti, degli psicoanalisti, dai creatori di moda, dagli ambientalisti, dai dietologi, dai filosofi, etc?; ovvero da tutte quelle categorie di persone che volontariamente vorrebbero farti del bene). E a rendere la questione curiosa è il fatto che chi invoca la figura ‘socialmente utile’ del protettore appare maggiormente ossessionato dalle minacce che proverrebbero dal Vaticano piuttosto che da quelle che provengono da altre religioni o sette.
Come che sia, se un tempo la chiesa cattolica si proponeva di difendere le anime delle sue indifese pecorelle dai pericoli a cui potevano essere esposte dalla frequentazione di ‘liberi pensatori’ (in genere eruditi, filosofi e scienziati), oggi di questa missione sembra volersi far carico qualcun altro.
Ma per quanto un liberale sia consapevole che la diffusione di certe idee possa avere effetti sociali indesiderati e nefasti, egli (anche se è diventato molto difficile accorgersene tempestivamente), se quelle idee non riguardano i diritti naturali (vita, libertà e proprietà) non pensa sia necessario ricorrere a tutors.
E così si giunge finalmente al dunque. L’’errore’ di molti laici, e di quelli che non perdono occasione per manifestare la propria intransigenza, è di non rendersi conto del fatto che oggi non viviamo più in società multiconfessionali, bensì in società multireligiose.
E questo fa la differenza anche perché molte di quelle religioni sono in realtà delle sette e delle ‘religioni fai da te’, e perché anche la stessa ‘laicità’ si configura ormai, e per molti, come una religione. Con tanto di fedi, dogmi, di adepti e di nemici.
D’altra parte, ad accrescere le difficoltà, è pure il fatto che si assiste alla prima esperienza della difficile convivenza tra ‘stato laico’, confessioni e religioni. Una difficoltà che si accentua tra le fasce sociali a basso reddito, costrette, a cause della scarsa mobilità, a convivere in aree geograficamente ristrette nelle quali i conflitti di abitudini che fanno riferimento a professioni religiose assumono anche i connotati del razzismo.
Tuttavia, e tutto sommato, all’origine della tensione tra religione e legislazione statale finalizzata alla regolazione delle conseguenze individuali e sociali dell’emergere delle novità, non son tanto (o finora) motivazioni sociali del tipo prima esposto, quanto questioni legate alla difficile soluzione e regolazione dei problemi etici posti dallo sviluppo scientifico. Questioni che pur avendo ampie ripercussioni sociali, finiscono per attirare una fascia ristretta della popolazione, o quanti, in generale, non si sentirebbero comunque di osservare nessun tipo di normativa: né quella proveniente dalla legislazione sociale, né quella proveniente dalla dottrina cattolica. Ma se i ‘fai da te’ tendono, generalmente, ad opporsi a tipologie normative diverse da quelle dell’autoproduzione, e da questo punto di vista, rappresentano, per certi versi, una sorta di degenerazione della morale kantiana, la gran parte dei membri delle società occidentali d’oggi resta indifferente, valuta in relazione a criteri di utilità soggettivamente intesi, rimane spaventata dalle paventate conseguenze.
Poiché la nostra tradizione del laicismo era stata tarata sulla convivenza, mai facile ma neanche traumatica, tra stato e religione cattolica, è del tutto ovvio che ora ci si trovi in serie difficoltà.
Per certi versi si assiste al verificarsi della profezia di Nietzsche; si vive il difficile momento in cui ci si rende conto che alla distruzione della metafisica cristiana non è seguita la nascita, o l’emergere, di nessuna nuova morale. Da questo punto di vista, anche il progetto dello scientismo è crollato e forse è inutile anche rovistarne le macerie alla ricerca (in osservanza dello ‘spirito del tempo’) di qualcosa di riciclabile.
Il fatto è che il laicismo tradizionale poteva contare sulla circostanza che i valori della società non erano molto diversi da quelli che davano forma alle scelte pubbliche. Che lo stato potesse legiferare ignorando completamente quelle che erano le credenze ed i valori religiosi diffusi nella società italiana, e da essa condivisi, era un’eventualità che tutto sommato, poteva essere riassorbita.
Da un po’ di tempo non è più così.
I valori della tradizione cristiana non sono più un limite invalicabile alla legislazione.
Non sto a dire se sia un bene o un male, mi limito ad osservare che per un complesso insieme di circostanze non è più così, e che questo impone di affrontare in termini diversi la relazione tra religione e ‘spazio pubblico’. A dire il vero non so esattamente cosa si intenda con ‘spazio pubblico’; ho il sospetto che si tratti di una di quelle tante parole che si siano introdotte non si sa per quale via nel nostro linguaggio e che lo abbiano in una certa misure reso ancor più confuso.
Anche per questo è meglio prendere le mosse da un altro punto di vista.
Storicamente, lo ‘stato liberale laico’ sorge dal desiderio e dalla necessità, avvertita da un numero allora abbastanza ristretto di pensatori che pensavano fosse necessario ‘inventare’ una forma istituzionale in grado di superare ‘il fallimento politico del cristianesimo’, di porre un limite alla distruttività dei conflitti interconfessionali, ed ha il proprio fondamento in una distinzione artificiale, storica e pragmatica tra sfera privata e sfera pubblica. C’è del vero quindi nella tesi secondo la quale la filosofia politica moderna nasce come una ‘critica della religione’.
Quella distinzione non fu allora (e per molti secoli) considerata positivamente dalla chiesa cattolica e, si pensi al caso della calvinista Ginevra, neanche dalle chiese protestanti. Essa, infatti, accanto alla riduzione della religione nella sfera privata, comportava anche che la sfera pubblica: la politica, si sarebbe dovuta occupare della produzione di un’insieme, secondo la tradizione liberale, abbastanza limitato di ‘beni pubblici’ tramite scelte collettive compiute su indicazione di un elettorato ristretto e, agli occhi d’oggi, decisamente omogeneo.
Ma quasi nessuno, neanche i laici più ‘oltranzisti’, pensavano che i valori che avrebbero dovuto ispirare le scelte pubbliche sarebbero stato antitetici a quelli della tradizione cristiana. La morale cristiana, e qui da noi cattolica, sopravviveva anche nei cuori dei laici. La contrapposizione al potere religioso, anche nella forma dell’anticlericalismo, non aveva prodotto una ‘morale laica’ antitetica a quella cristiana. E non la ha prodotta neanche ora.
Fratellanza, uguaglianza, giustizia sociale, solidarietà, rispetto della vita, etc., non erano e non sono, anche quando professati da socialisti atei, che valori cristiani secolarizzati. Si poteva discutere, anche animosamente, sui tempi e sugli strumenti con cui realizzarli, ma che una società dovesse averli a proprio fondamento non era in discussione. Non è certo un caso che su di essi la distanza tra tradizione cattolica e tradizione socialista era minore di quello che c’era tra cattolici e socialisti da una parte e liberali laici dall’altra. Questo fragile equilibrio si sgretola quando appare evidente che quella separazione non reggeva più per un insieme di motivi.
Anzitutto allorché, con la democrazia di massa viene in evidenza che lo stato, la politica, avevano il compito di realizzare le aspettative maggioritarie nella società. E queste o erano anche di carattere religioso, o risentivano delle credenze religiose. Si ha così il primo cedimento di quella distinzione tra sfera privata e sfera pubblica che il Cristianesimo, unica tra le religioni monoteiste, aveva, sia pure di malavoglia, consentito.
Si trattava di una rivincita di socialisti e cattolici nei confronti dei liberali e dello stato liberale il quale, fino all’ultimo, cercò di opporsi alla dilatazione delle scelte pubbliche, forse intuendo che tale dilatazione rappresentava la fine dello stato liberale laico fondato sia sulla distinzione tra pubblico e privato, sia sulla limitazione di quei beni pubblici che sarebbero dovuti essere prodotti dalla politica.
A questo punto, però, come se non bastasse, la scienza e la tecnologia ci hanno messo di fronte ad un gran numero di problemi, anche, o forse soprattutto, morali che da una parte facevano sì che quella distinzione tra pubblico e privato saltasse per via del fatto che nessuno sembrava in grado di dire quale fosse la casella in cui si inseriva la novità scientifica e sulla quale avrebbe riversato le sue attese o inattese conseguenze.
Ora il problema è chi debba stabilire se la regolazione delle conseguenze del ‘progresso delle scienze’ sia di competenza della politica, della religione o della società.
Di fatto la tradizionale distinzione tra sfera pubblica e sfera privata salta. Di fronte a questa circostanza, alcuni credono che ogni individuo possa fare e comportarsi come vuole, altri che lo stato sia il monopolista nel creare nuove regole che valgono per tutti, altri che la novità debba essere valutata e regolata alla luce dei valori religiosi tradizionali, altri ancora che ogni religione possa legittimamente esprimere un parere vincolante per i propri fedeli.
Ma se ogni stato occidentale nell’ambito del territorio in cui esercita la sovranità di religioni ne annovera ormai parecchie, il problema diventa tragico.
Verrebbe da dire che potrebbe regolare l’emergere delle novità e la loro diffusione e fruizione secondo criteri di carattere universale. Ma questo non soddisfa certo tutte le religioni. In questo caso molti fedeli dovrebbero obbedire a leggi dello stato che vanno contro le proprie fedi. In altri casi viene da chiedersi quanto costoro possono restare indifferenti di fronte al ‘male’. In altri casi ancora le leggi dello stato potrebbero impedire comportamenti che sono legittimi per la religione in cui si crede. Ed infine, ci si può chiedere dall’osservanza di quali leggi si può essere esentati per motivazioni religiose. Proviamo ad immaginare quale potrebbe essere la capacità di diffusione di una religione che rispettasse le caratteristiche richieste dall’Onu, ma vietasse ai propri adepti di pagare le tasse perché lo stato, in quanto coercizione (come dice gran parte della storia del pensiero politico) è un male che occorre combattere.
Di fronte a queste circostanze neanche la vecchia soluzione del liberalismo: riduciamo drasticamente la potestà della politica di produrre beni pubblici tramite scelte collettive, sembra una soluzione adeguata. L’illusione che esista una morale pubblica, o un’etica pubblica, o anche un ‘patriottismo costituzionale’ in grado di creare un numero sufficientemente ampio di valori condivisi, o un’identità condivisa, si sta mostrando appunto un’illusione.
Contemporaneamente, il numero delle questioni sulle quali appare opportuno trovare un accordo, o delle regole condivise, cresce al pari della difficoltà ad identificarle. Per farlo occorrerebbe inventarsi una morale laica, diversa da quella delle morali religiose, ma tutto sommato accettabile anche dalla religione. Ci si prova ma non sembra sia facile e il fallimento dello scientismo di creare una morale ispirata alla teoria e alla prassi delle scienze naturali è un esempio di quanto il progetto sia difficile da realizzare.
Si pensava anche che i diritti naturali potessero essere la base di questa convivenza tre morale laica e morale religiosa, ma anche essi, non solo non sono condivisi da tutti i componenti delle società occidentali, ma la loro estensione, e le relative modalità di godimento, non cessa di provocare contrasti legali e contese sociali. Per di più, è anche da tener presente che tutti gli altri cataloghi dei diritti portano ad un’espansione della sfera decisionale pubblica, o dell’intervento dello stato e della politica, che crea problemi forse anche più gravi e pertanto ancor più difficilmente risolvibili.
Il fatto è che tutte le nostre culture politiche e scientifiche, in maniera più o meno accentuata, si fondano se non sulla comunanza per lo meno sulla complementarietà non conflittuale di valori, credenze e comportamenti. Di fronte al fatto che questo mondo non esiste più il tentativo dei laici oltranzisti di difendere la società dalla religione cattolica rischia se non altro, o a essere benevoli, di offuscare il problema reale.
E questo, da secoli, è rappresentato dal fatto le religioni hanno una concezione finalistica dell’uomo e dell’universo che in Occidente, per lo meno dall’inizio della cosiddetta ‘modernità’, ha finito per scontrarsi con lo sviluppo della scienza e della filosofia. Noi possiamo anche credere che la “collera anti teologica” provocata nel Machiavelli dalla constatazione delle inumane crudeltà a cui dava esito lo spasmodico interesse del Cristianesimo per la salvezza delle anime sia all’origine di quel tentativo di por fine e limite alla sudditanza della filosofia, della scienza e della società nei confronti della teologia, e che ci darà poi lo ‘stato laico’. Solo che non possiamo più immaginarlo in quei termini perché nessuna diversa morale e nessuna scienza potranno mai eliminare la religione dalla nostra società.
Atene e Gerusalemme sono i termini del dramma umano e non ha senso individuare il nemico nella Roma che quell’antagonismo ha cercato di comporre. Certamente in molti casi e molte circostanze Roma ha sbagliato, ma ciò significa anche che oggi il nostro peggior nemico è da individuare in quel cattolicesimo che è tra le poche religioni a riconoscere la legittimità (si pure condizionata) della ‘via della ricerca’?
Certamente qualcosa si è rotto, ed anche chi rimane incerto e perplesso di fronte ai problemi posti dalla possibilità della produzione non sessuale della vita, e si chiede se non sia il caso di darci, brutalmente, un taglio, si domanda quale mai potrà essere il futuro impatto di quel “finalismo della natura umana” (al quale il cattolicesimo non può rinunciare, se non altro, nel definirlo) sullo sviluppo della ricerca scientifica.
Si tratta di un problema affine a quello nel quale certi liberali (quelli per così dire ‘laici’, non quelli cosiddetti ‘cattolici’) si erano già imbattuti quando all’inizio del secolo scorso avevano iniziato a mettere in dubbio che nelle vicende politiche ed economiche esistesse davvero una ‘mano invisibile’. Quando avevano scoperto che, essendo il più delle volte esiti non-intenzionali di azioni umane intenzionali, le istituzioni sociali, pur potendo essere costantemente migliorate, si evolvevano senza seguire un senso ed fine. E questa mancanza di finalismo dava vita a posizioni diverse da quelle della dottrina sociale cattolica su problemi di grande importanza come ad esempio quello di ‘bene comune’, di ‘giustizia sociale’, e di ‘destinazione universale dei beni’.
Da questo punto di vista, il contrasto tra un certo tipo di liberalismo e il cattolicesimo è evidente e difficilmente componibile. Ma essere laici, per lo meno per quei liberali, significa restare sempre aperti al confronto, scettici (perché consapevoli di essere fallibili) nei confronti delle altrui come delle proprie convinzioni. Soprattutto non lasciarsi, neanche per un istante, sfiorare dall’idea che i problemi posti dal tumultuoso emergere di novità che caratterizza il nostro tempo possano essere risolti col metodo dell’esclusione di qualcuno dallo ‘spazio pubblico’.
n°3
RispondiEliminaSulla neutralità etica di Odifreddi e del Pd
di Flavio Felice
In merito ad un articolo di Piergiorgio Odifreddi, pubblicato da “La Repubblica” domenica 30 dicembre 2007, intitolato: “Il PD, la laicità e la vergogna”, mi permetto di sottolineare alcuni elementari argomenti che il logico matematico ha mostrato di tenere in scarsa considerazione. Si tratta di elementi minimi, nulla di eccezionale, che probabilmente un grande logico come Odifreddi ha omesso solo per disattenzione o per disinteresse nei confronti della tematica. È comprensibile che un logico matematico così celebrato non presti grande attenzione ad argomenti che considera alla stregua della superstizione e dell’astrologia. In effetti, tutti sanno che la ricca cultura che testimonia la paura per il gatto nero che attraversa la strada è quanto meno comparabile con il pensiero di Agostino, Tommaso, Scoto, Pascal, Kierkegard, Edith Stein, Guardini, Wojtyla, solo per citare alcuni noti maghi e cartomanti.
In realtà, l’articolo di Odifreddi è rivolto ai suoi compagni di viaggio del Partito Democratico e alla loro intenzione di scrivere una carta dei valori. Non entro nel merito, è un problema del PD, mi limito a segnalare che a rigor di logica i partiti nascono intorno a dei valori più o meno condivisi e a dei principi che i fondatori ritengono più o meno negoziabili. Nel caso del PD, invece, intanto nasce un partito (metti che qualcuno ci rubi l’idea del secolo o che cada in disgrazia Berlusconi!), poi si elegge un segretario, in seguito si individuano dei saggi ed infine si cerca di far quadrare i conti, scrivendo una carta dei valori che tenga insieme l’ateismo militante di Odifreddi e il cattolicesimo altrettanto militante della Binetti. E se i conti non tornassero? Non c’è problema, si interviene sulla carta, si smussano gli angoli, si elimina qualche nota identitaria di troppo; e poi non si vada troppo per il sottile! Il segretario garantisce per tutti. Ecco, dunque, un primo problema di ordine logico che il matematico Odifreddi non considera meritevole di essere neppure segnalato. Eppure è fin troppo banale! Ma forse è questo il problema, le banalità della politica non devono distogliere il pensiero del genio matematico.
Un secondo problemino che emerge dall’articolo del nostro riguarda la presunta nozione di laicità che il partito democratico dovrebbe assumere (lo ripeto, ma non avrebbero dovuto pensarci prima?). Dal momento che tutti si dicono laici, persino quella sfrontata della Binetti che per il nostro logico rappresenta l’araldo dell’integralismo estremista cattolico, e che l’elemento simmetrico rispetto ai cosiddetti teodem sarebbe rappresentato da coloro che vogliono distruggere la religione e la Chiesa, come avrebbero voluto i rivoluzionari francesi o spagnoli (questo si, ammette seriosamente Odifressi, sarebbe un “retaggio del passato”), ne consegue che il laicismo radicale odifreddiano risulterebbe come il giusto “compromesso tra i due estremi del clericalismo e dell'anticlericalismo”. Ma che logico! Da grande matematico ha giustamente indicato la mediana tra la Binetti e il Robespierre.
A parte il fatto che la simmetria di cui parla Odifreddi tra i teodem e i rivoluzionari francesi e spagnoli andrebbe spiegata un po’ meglio, a meno che non la si voglia buttare lì come una barzelletta di fine anno che non fa ridere nessuno. Tuttavia, la questione diventa paradossale, paranoica e patologica quando un laico pretende di affermare che cosa significhi essere “autenticamente laico” e di conseguenza si arroga il diritto di espellere dall’arena pubblica tutti coloro che – peste li colga! – non rientrano nel suo soggettivissimo criterio di laicità. Per di più, tale paranoica pretesa di essere il guardiano della cittadella laica contro le pericolose incursioni barbariche dei cattolici alla Binetti, si fonderebbe su un’idea di ragione ed una di neutralità morale che di scientifico hanno ben poco.
Per quanto mi riguarda, sulla scorta dell’opera di qualche scienziato minore come Mises, Hayek e Popper, ritengo che razionale non significhi incontrovertibile, così come l’oggettività di un asserto scientifico non si caratterizza per la sua “verificabilità”, bensì per la sua “falsificabilità”. Infine, la pretesa neutralità morale della ragione è un mito che ha assunto i connotati dell’incubo ogni qualvolta gli scienziati l’hanno proclamata. Un mio vecchio ed apprezzato maestro è solito ripetermi che “di neutrale nella scienza c’è solo la stupidità”.
Gentile professore Odifreddi, dovremmo allora chiederci: quale azione non riveli un fine, quale fine non trasudi di valori, quale strumento per il raggiungimento di un dato fine non implichi l’adesione ad un valore piuttosto che ad un altro, quale azione non rappresenti una scelta e quale scelta (selezione tra le alternative possibili) non rappresenti un giudizio e quale giudizio non sia frutto di una teoria e quale teoria non sia l’esito di una scelta valoriale. Non si dà azione umana individuale che non sottenda scelte valoriali e non si dà valore che non sia perseguito razionalmente, ossia mediante la predisposizione dei mezzi ritenuti, in una data situazione, i più adatti.
Dunque, è risibile – oltre che pretestuosa e provocatoria – la superbia con la quale il nostro logico individua gli estremi dell’intervallo nella Binetti e in Robespierre ai fini di calcolare la media aritmetica della laicità, che del tutto casualmente corrisponde proprio con la sua personale, discutibile e arbitraria posizione. Esattamente quella che una sedicente logica rigorosamente scientifica dovrebbe assumere come giusto compromesso e far propria nella carta dei valori del nuovo Partito Democratico: buona fortuna!
È fuorviante contrapporre la religione alla scienza, in quanto, in primo luogo, entrambe significative e rilevanti ai fini dell’esistenza umana, in secondo luogo, perché rispondono a domande diverse ed infine, perchè non esiste problema scientifico per la soluzione del quale lo scienziato non si ponga un problema di ordine metafisico. Le risposte potranno essere diverse, ma chi risponde è sempre un uomo con il suo carico di valori, di vissuto, di credenze, di fedi o di non-fedi. Comunque una persona che, talvolta, come nel caso di Odifreddi, contrabbanda la propria personalissima, e discutibilissima etica, per la forma più neutrale e laica che ci sia. Credo sempre più fermamente che abbia ragione il mio vecchio ed apprezzato maestro!