Ho ricevuto questa e-mail e la pubblico così come mi è arrivata, invitandovi a leggerla fino in fondo e a rifletterci con attenzione: qualora non vi fosse già successo di dover subire un'esperienza così umiliante, vi sarà utile a comprendere il punto al quale questo paese è arrivato. Abbraccio Roberta e la ringrazio per aver voluto condividere con noi la sua storia.
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Non senza difficoltà, decido di inviare copia della lettera spedita all'Ufficio Relazioni con il pubblico dell'Ospedale S.Anna di Torino. Per quanto piccola sia questa vicenda, è sempre dalle piccole cose che comincia il decadimento. Ma la verità è che non sono ancora riuscita a scrollarmi di dosso l'umiliazione, forse questo mi aiuterà.
Grazie.
Nella nostra città abbiamo certamente un centro di riferimento d’eccellenza per la diagnosi precoce e la terapia chirurgia dei tumori al seno e all’apparato genitale femminile. Concordo appieno con la presentazione ufficiale dell'Azienda Ospedaliera S. Anna di Torino. Anzi, aggiungo i miei elogi sinceri per la Cattedra C, ambulatorio al piano terra, che rappresenta non solo l’alta competenza specialistica nel trattamento diagnostico e l’eccellenza terapeutica, ma anche la rara capacità di tutto il personale nel relazionarsi umanamente con il paziente, facilitando così tutti gli aspetti di un rapporto necessariamente continuativo, come il mio, in un clima di fiducia e reciproca comprensione.
Fatta questa premessa, doverosa, tutto cambia quando si è costretti a un day hospital al primo piano di via Ventimiglia 3. Ometterò i nomi di tutti gli operatori incontrati, ne ricordo solo alcuni e non ritengo corretta l’informazione parziale.
Carta dei servizi – Standard di qualità - Carta di Accoglienza.Venerdì 14 maggio 2010 – h. 6.45.
L'accoglienza all'ingresso in ospedale ed in reparto/ambulatorio da parte di personale qualificato.
Con il mio compagno entro nel reparto di ginecologia, c’è ancora odore di notte, cerco qualcuno a cui chiedere informazioni. Sento un chiacchiericcio animato arrivare da una stanzetta, intravedo le uniformi da infermiere e busso.
“Vada in fondo adesso arriviamo”. La porta si richiude e noi troviamo la saletta d’attesa dove già altre persone aspettano.
Il tempo passa, il reparto si anima. Non succede niente per un bel po’. Verso le 8, 8.30 mi pare, chiamano la prima paziente. Quasi contemporaneamente arriva anche un’infermiera, ricorda un po’ le donne attempate di certi film americani dei primi anni ’60. Penso che è finalmente ora di fare l’ accettazione. Invece, piuttosto sgarbatamente, fa uscire gli accompagnatori delle pazienti. C’è un attimo di immobile silenzio in cui è evidente che tutti si chiedono la necessità di toni così scortesi invece di un semplice invito ad attendere fuori. Noi pazienti rimaniamo sole a pazientare. Dell’accettazione nessuna notizia. In questi giorni di esami pre-operatori mi è sembrato di fare più accettazioni che analisi, e oggi niente. Mi chiedo se sanno che sono qui, voglio dire, se sanno che sono veramente venuta qui stamattina, se sono arrivata. Provo a chiedere a un infermiera dalla faccia simpatica che passa di lì, mi ricorda Zoey nella serie Nurse Jackie. Dice velocemente qualcosa che non capisco e corre via a fare le mille cose di un reparto in pieno fermento. Chiamano, un po’ alla volta le donne in attesa vengono ricoverare. Arrivano anche le 10 del mattino e il mio compagno rientra con il permesso. Se ha un permesso sanno che sono qui, è già qualcosa.
Principi fondamentali della carta dei serviziSono circa le 11, 11.30, le altre pazienti sono state tutte ricoverate, la saletta d’attesa è piena di persone venuta per visite e/o esami, e io sono qui sempre meno paziente. Nessuno mi dà informazioni, alcune donne in attesa ore prima con me le vedo già sveglie dall’anestesia. Quindi fermo l’infermiera faccia simpatica e chiedo. “Di lei se ne sta occupando la mia collega”. Vado dalla collega donna anni ‘60 che è tutta la mattina che ciondola in corsia “E lei chi è?” ribatte. Le risposte non sono solo contrastanti, ma assumono toni duri, acidi, come se fossi un'ospite indesiderata che vuole a tutti i costi imbucarsi a festa. Così per il resto del tempo. Non riusciamo ad avere informazioni, a capire. Il mio compagno ed io cerchiamo di essere il più possibile garbati nel domandare, ma le risposte arrivano secche “Senta, non ci sono posti letto, io non posso farci proprio niente!”
Rispetto dei diritti, della dignita' e della riservatezza: in nessun modo l'esigenza terapeutica e organizzativa, debbono compromettere il rispetto della dignità della persona malata, gli operatori devono instaurare una relazione col paziente tale da limitarne i disagi mettendolo in condizioni di esprimere i propri bisogni ed offrendo la massima riservatezza.
Ma che vuol dire, ci chiediamo, ma c’è la possibilità che mi rimandino a casa? E aspettiamo ancora. “È la sala operatoria, se non la chiamano cosa vuole?”. Comincio a perdere la pazienza, sono nervosa, agitata, la mattina è passata e io non riesco più a stare seduta. Passeggio per la corsia. La rabbia mi sale, sono a digiuno da ieri e mi gira la testa, ho la bocca impastata e vorrei solo stendermi. Ma ho bisogno di muovermi. E cammino. Quando torno indietro verso la sala d’aspetto trovo il mio compagno appoggiato al muro con la faccia tesa. Si avvicina l’infermiera faccia simpatica con passo feroce “Adesso basta eh!” Quasi urla al mio compagno. Tutto subito non capisco cosa sta succedendo. Il mio compagno, campione di nervi saldi e buone maniere, risponde garbato “Basta cosa, mi scusi?” La discussione si accende, intuisco che veniamo rimproverati per le troppe domande. Adesso è troppo, se c’è una cosa che non sopporto è di venire aggredita. Io, che sono qui da stamattina alle 6.45 e nessuno si è degnato di dirmi una semplice e rivoluzionaria frase: “Mi spiace Signora, ci sarà da aspettare. Probabilmente tutta la mattina e anche più in là. Stia tranquilla, appena possibile la chiameremo”.
Capisco i tagli alla sanità che rendono ogni giorno un emergenza, sono certa che è faticosissimo. Ma non mi risulta che si possa tagliare anche la capacità di informare.
E invece la discussione prosegue con toni sempre più alti. Sembra quasi che sfoghino su di noi le loro frustrazioni. Sento le lacrime salire agli occhi e non riesco a fermarle, tremo di rabbia, sto per avere una crisi isterica, “La sua crisi se la faccia venire al piano di sopra cara signora! Sono loro che ci mettono più ricoveri di quanti possiamo sopportare!” Sopportare? Il mio compagno ha sempre toni bassi ma fermi, e spera in cuor suo, lo so, che l’atteggiamento sia contagioso. E invece arriva l’infermiera donna anni ’60 che fa la cosa più stupida che potesse fare, picchietta velocemente il suo dito indice sul mio torace ripetendo più volte “Lei cara signora.. lei...” Non ci vedo più. E urlo. “Non mi tocchi! Non mi tocchi!”.
Quello che succede dopo è un po’ confuso.
Ho lasciato il reparto. Sono in strada, davanti all’ospedale, sotto la pioggia. L’acqua mi bagna i capelli e il viso, e per la prima volta in quella mattina provo un sollievo immenso. Respiro.
Mi viene da ridere a pensare alle raccomandazioni dell’anestesista due giorni prima. Le ho parlato dei miei attacchi di panico, ormai rari per fortuna ma sempre latenti. È per questo che scelgo la totale. Si è raccomandata che arrivassi calma in ospedale per non creare problemi con l’anestesia, mi ha suggerito anche dieci gocce di lexotan sotto la lingua.
Il mio compagno mi raggiunge. Mi parla pacatamente, come se avessi undici anni, e mi sa che in quel momento sono qualcosa di simile. Non mi chiede di rientrare, ma racconta di aver parlato con il chirurgo che nel frattempo era stato chiamato dalla sala operatoria. Persona cortese, discussione civile. Quanta gente ha perso tempo e pazienza solo perché nessuno ha detto quella semplice e rivoluzionaria frase: “Mi spiace Signora, ci sarà da aspettare. Probabilmente tutta la mattina e anche più in là. Stia tranquilla, appena possibile la chiameremo”.
Principi fondamentali della carta dei serviziTorno in reparto. Leggo il giornale. Passa altro tempo. Non so più neanche che ore sono, credo le 12.30 forse. Mi chiamano. Entro in stanza. “Si spogli che adesso le porto il camice”. Torna subito. Mentre l’infermiera esce ne entra un'altra che dice “Ma non è ancora pronta? In sala l’aspettano”. Non dico niente. Non voglio più dire niente. Mi cambio così velocemente da fare invidia ad Arturo Brachetti. E aspetto. Faccio due chiacchiere con la ragazza nella stanza, siamo solo in due, anche se i letti sono quattro. Mi chiede com’è che mi ricoverano così tardi. Mancava il letto, mi faccio sfuggire. Lei mi dice che il letto in cui sono è libero dalle 10 del mattino.
Efficienza - Efficacia: il servizio pubblico deve essere erogato in modo da garantire un ottimale rapporto tra risorse impiegate, attività svolte e risultati ottenuti.
Voglio dormire, è l’unica cosa che penso.
Mi portano in sala operatoria. Varcata quella soglia mi sembra di essere in paradiso. Sembra strano. Ma sono felice di aver lasciato il reparto, di aver chiuso fuori quell’inferno, di non poter essere raggiunta dalle infermiere. Qui è un altro mondo e l’attività è intensa.
Una ragazzina cerca con difficoltà una vena sul braccio, non la trova. La guardo, mi sa che è il suo primo giorno da tirocinante, è più pallida di me e ha quasi paura a picchiettare sulla pelle. Chiamano il mio nome. Sono qui. “Ma non è ancora pronta?” So che non dice a me. Qualcuno corre in soccorso della ragazzina pallida, l’aiuta, le spiega. Poi fa fare a lei. Mi infila finalmente l’ago/non ago sul dorso della mano destra. Il dolore è fortissimo e ci mette un sacco di tempo. Lo so, sta imparando, è una clinica universitaria, guardo Grey’s Anatomy, fai pure ragazzina. Non voglio lamentarmi. Accolgo questa sofferenza come espiazione per la scenata in reparto, adesso ho i sensi di colpa. Mi nutro di sensi di colpa, anche laddove non hanno nessun motivo di esistere, perché avevo ragione. Mentre l’operazione ago/non ago procede lentamente, un'altra ragazza mi chiede se voglio cambiare idea e fare la lombare. Ecco, penso, il tempismo è tutto in certi casi... Ovvio che il mio rifiuto è secco e definitivo. Una tirocinante al giorno è più che sufficiente.
Ma la ragazza insiste. Spiego che potrei replicare la mia scenata isterica di qualche ora prima, provi ad informarsi con il Dottore. Il Dottore spunta dal nulla come teletrasportato. Non ha assistito al mio “intervento” in corsia ma ha parlato con il mio compagno.
Già, è stato fra il “Non mi tocchi” e la pioggia sui capelli.
La ragazza-lombare molla l’osso, mi scuso con il Dottore per prima, in reparto. Sempre il solito senso di colpa. Il Dottore mi massaggia i piedi, sorride “Non si preoccupi” e torno a rilassarmi. Mi preparano. Mi addormento. Mi risveglio. Mi portano in stanza. Sono sveglia come un grillo. Chiacchiero con le due compagne di stanza e sento storie altrettanto assurde, mi viene quasi da pensare che a me è andata ancora bene. Il mio compagno racconta le battute che ha dovuto sentire mentre ero in sala operatoria. Siamo ben oltre la maleducazione.
Verso le 20 mi chiamano per la visita e le dimissioni. Due ragazze mi visitano, compilano e mi dimettono. Chiedo quali accortezze dovrò avere nei giorni a seguire. “Ma non ce l’ha un ginecologo?”. Non importa. Mica ho più la forza di discutere, voglio solo andare a casa. Nel corridoio mi rendo conto che ho ancora l’ago/non ago con tutti i suoi tubicini nella mano. Torno indietro. Me lo tolgono quasi sbuffando. Non voglio pensare che il loro stipendio arriva anche dalle mie tasse. Mi cambio. Chissà se posso togliere le calze anti-trombo? Non ho voglia di tornare indietro, chiedo a un infermiera che ha da poco iniziato il turno, mi dice di si. Torno a casa. La notte ho gli incubi, mi sveglio di continuo. La mattina ho la mano destra viola fino alle dita. Mi spoglio per farmi una doccia e mi accorgo di avere un altro livido, bello grosso, sul braccio destro all’altezza dell’ascella. Chissà che è successo.
Ripercorro la giornata in ospedale, e mi tornano in mente il film Brazil di Terry Gilliam e i racconti di Kafka, questo è stato.
Ho voglia di chiamare la mia vecchia amica che ora lavora al tg3 e raccontarle tutto. Sono arrabbiata. E sono stanca. Invece vado dal mio medico di base, che è anche un amico, mi ascolta, e diventa una belva. Il resto della conversazione si privilegia del segreto medico-paziente.
Principi fondamentali della carta dei servizi.Buon Lavoro.
Partecipazione e informazione: è garantita la partecipazione del cittadino alla prestazione del servizio pubblico attraverso una corretta informazione, la possibilità di esprimere il proprio giudizio con questionari di gradimento, di formulare suggerimenti e inoltrare reclami.Inoltre l'Azienda in collaborazione con le associazioni di volontariato e di tutela dei diritti, concordera' iniziative volte a migliorare la qualità dell'assistenza.
Roberta
Tutto quello che sto per scrivere è documentato
RispondiEliminaSono stata al S.Anna con una emorragia in corso,ero incinta di poche settimane ed era un aborto spontaneo.Dopo ore mi ha visitata un ragazzino,uno studente,continuava a dire che c'era troppo sangue.e che non si vedeva nulla,e certo che non si vedeva!.erano le 23 circa,mi hanno parcheggiata su una barella in una sala visite che vuol dire nessun campanello per chiamare se stai per caso morendo,in dote un paio di assorbenti e basta neanche l'acqua..Stavo malissimo ma sono riuscita a trascinarmi fuori verso le 5 del mattino, nessuno mi ha fermata, ho preso il taxi e son tornata a casa dal mio spaventatissimo marito,il tassista mi ha accompagnata fino a casa,fin su,non solo al portone ma proprio alla porta di casa,ha avuto più delicatezza lui di tutto un cazzo di ospedale.Nessuno mi ha fermata e nessuno mi ha mai cercata eppure ero stata regolarmente ricoverata.Non cambia mai nulla?
i
Non so quale delle due storia sia più assurda, ma una cosa è certa, siamo oltre la malasanità, ma di parecchio... Questa è delinquenza.
RispondiEliminaStorie d'ItaGlia. Che fa male leggere perché non abbiamo difesa alcuna, possiamo solo subirle. Ed umiliarci. Ma tanto non cambia nulla. Un abbraccio a Roberta anche se non lo può sentire, un grazie a te di aver riportato questa testimonianza.
RispondiEliminaDaniela
Ho avuto, purtroppo, sia frequentazioni personali ospedaliere, sia di accompagnamento parenti.
RispondiEliminaMentre leggevo, provavo una certa familiarita'. Anzi mi chiedevo: e dov'e' la novita'? Avrei decide di episodi, forse meno gravi nel complesso, ma simili nello spirito. Anche se per obiettivita' posso parlare anche di tante persone gentili.
E' giusto nominare Kafka, perche' questa mancanza di logica, di educazione e rispetto e' tipica anche degli ambienti burocratici, uffici pubblici e simili.
Con l'aggravante che qui, trattandosi della salute, siamo particolarmente vulnerabili.
E diro' di piu': questi comportamenti mi sembrano tipici delle situazioni e dei reparti in cui sono coinvolte le donne. Sia perche' le si ritiene piu' "pazienti", sia perche' per vigliaccheria le infermiere isteriche pensano che sia piu' facile sfogarsi con loro, sia perche', non so bene come ma l'ho constatato, tutto cio' che concerne le donne e il femminile, come reparti di ostetricia e ginecologia, e' visto con una sorta di sbrigativo fastidio e disprezzo. Ripeto, non so perche', ma e' cosi'. Come se la presenza di donne che abortiscono, ad esempio, "contaminasse" tutto l'ambiente.
Anche sul trattamento in maternita' ho letto molti racconti di donne sgomente e umiliate, a cui e' stato irreparabilmente rovinato uno dei piu' bei momenti della vita.
questo è quello che un governo ed un paese che si riempie la bocca con famiglia,dio e tutta la retorica conosciuta sul temo in cui dovremmo angosciarci perchè alla sig.briatore và via il latte!!!
RispondiEliminaCara Roberta, questa storia mi pare ben lontana dall'essere "piccola".
RispondiEliminaLeggendo la tua lettera provavo una rabbia furibonda, da lacrime.
Quello che ti è capitato è oltre il "vergognoso"; secondo me è il termometro di una società marcia, dove (quasi) tutti pensano solo al proprio tornaconto e dove il danneggiare anche gratuitamente gli altri è un modo per risultare migliori al confronto.
Un abbraccio forte.
ma oltre che mandare una segnalazione all'URP, una bella denuncia alla magistratura?
RispondiEliminase continuiamo a subire senza far nulla, è inutile lamentarsi
Cara Roberta, gira subito questa lettera al direttore del dipartimento in cui sei stata ricoverata, al direttore dell'azienda ospedaliera e al giornale della tua città.
RispondiEliminaNon lasciare che le violenze che hai subito rimangano impunite.
E fai tutti i nomi che riesci a ricordare: nessuno di loro perderà il posto, ma -smuovendo un po' le acque- avrai fatto un immenso regalo a tutte noi.....
Ti mando un abbraccio grandissimo
-Valentina Rosselli-
Ho letto tutta la mail... personalmente credo che la sig.ra Roberta al momento del ricovero fosse molto esaurita, stressata ed impaurita dall'imminente intervento, e che abbia ingigantito alcuni piccoli episodi facendone una specie di tragedia greca. Non credo che una attesa di circa 6 ore sia così insopportabile!!! Non credo neppure che un livido sulla mano sia una cosa così grave, a leggere la mail sembra che la mano gliel'abbiano amputata!!! E se poi ha trovato tante infermiere scorbutiche, beh, ciò non significa un bel nulla, l'importante è che l'intervento sia stato eseguito bene, no?
RispondiElimina@Gianni B.: "Non credo che un'attesa di circa 6 ore sia così insopportabile!!!" SEI ORE! Dovrebbero essere insopportabili 6 minuti. In 6 ore ti vedi 4 film, 8 telefilm, leggi 120 pagine di un saggio di media difficoltà, 200 di un romanzo, ascolti 100 canzoni, scrivi una manciata di articoli, imposti un sito web, fai 4 pasti dall'antipasto al dolce o copuli una decina di volte. Se ne hai la possibilità. Altrimenti stai a mangiarti l'anima per l'ansia e butti via un quarto della vita giornaliera. Se ti sembra sopportabile...
RispondiEliminaNon credo che una attesa di circa 6 ore sia così insopportabile!!!
RispondiEliminaChe mondo sarebbe senza i troll?
Un mondo migliore.
Scusate, mi inserisco in quest'ultima diatriba (Tullix e Gianni B in particolare). Penso che voi stiate trattando due questioni diverse. Anche io penso che aspettare sei ore (anche se due ore forse se l'è volute aggiungere da sola presentandosi in un orario in cui non si opera in assenza di urgenza) per un intervento non di urgenza e primo soccorso, seppur circostanza molto spiacevole e preferibilmente evitabile, sia qualcosa che purtroppo uno potrebbe dover mettere in conto, alla luce del fatto che la Sanità garantisce ad ogni singolo cittadino accesso alle cure e che siamo in sessanta milioni. Questo può creare un problema oggettivo di gestione dei tempi. Ma proprio per questo, perché per un paziente che deve entrare in sala operatoria l'attesa potrebbe essere mentalmente e fisicamente provante, l'ospedale dovrebbe garantire in tutti i modi e a tutti i costi con il suo personale un'attesa il più possibile serena. E dice giustamente Roberta che deve essere informato, se ci sono ritardi, non trattato come un sacco, persino a prescindere dall'educazione o malucazione. E l'altra cosa gravissima, anche questa giustamente sottolineata da Roberta, è che se l'ospedale non assicura questo trattamento mette a rischio l'intervento sanitario stesso, ingenerando situazioni ad alto stress nel momento in cui sono più pericolose. Se il racconto è vero, anche dovessero essere state enfatizzate alcune sensazioni personali, la cosa resta vergognosa.
RispondiEliminaHo avuto a che fare negli ultimi sei anni con ospedali, cliniche, medici generici, specialisti, assistenza domiciliare e chi più ne ha più ne metta... ho capito solo che non bisogna cercare di fare una vita sana e salutare per evitare le malattie, ma per evitare il SSN nazionale, che è mortale, soprattutto se non si è in grado di difendersi.
RispondiEliminaNel caso di mio padre io ho denunciato, come qui si deiceva di fare: trasferimento di mio padre (incosciente) da un ospedale ad una clinica (villa Pia di roma: vi dice qualcosa?) senza avvisare i familiari (volete sapere che si prova ad entrare con la propria madre in stanza e trovare il letto dove poche era prima era mio padre, vuoto?), mancato invio della cartella clinica (prima mandano il pazienta da togliersi dai piedi, poi forse la cartella), mancanza di medicinali (ci hanno chiesto di andarli a comprare noi), somministrazione di farmaci scaduti (da un solo mese però: ho le foto), mancanza delle più elementari norme sanitarie... dopo due anni dalla denucia il giudice ha detto che mio padre non è morto di queste cose. Infatti è vero, non è morto di questo, ma forse poteva vivere più serenamente l'ultima parte della sua vita.
Che Dio li fulmini tutti.... anzi no, che gli faccia provare quello che fanno passare agli altri.
Sono passati diversi mesi, e recuperando una serie di analisi da portare al prossimo controllo, mi ricapita in mano la risposta alla mia lettera dell'URP dell'ospedale S.Anna.
RispondiEliminaRingrazio Metilparaben per la pubblicazione perché dopo sono stata molto meglio! E ringrazio voi per i commenti, tutti. Senza voler ritornare su questa vecchia "faccenda" mi sembra giusto raccontarvi, seppur con notevole ritardo, come è andata a finire, visto che vi ho coinvolti.
Ecco la risposta:
Gentile Signora,
a seguito della Sua segnalazione, è stata svolta una indagine interna per verificare i fatti lamentati e, con la presente, desideriamo informarLa di quanto segue.
La Capo Sala del Reparto e il Direttore del Dipartimento di Ginecologia, sono anzitutto dispiaciuti che Lei abbia conservato una impressione tanto negativa del ricovero.
L’attività del reparto di ginecologia è consistente. Sui 25 posti letto disponibili, ogni giorno si avvicendano una media di 20 pazienti tra ricoveri e dimissioni; dieci-dodici sono in media le signore che devono essere accompagnate in sala operatoria e seguite dal personale dopo l’intervento chirurgico.
L’organizzazione attuale prevede che all’arrivo le pazienti siano fatte accomodare in sala d’attesa e chiamate di volta in volta in base al programma operatorio, i parenti invece, sono sempre invitati ad attendere fuori dal reparto per permettere al personale infermieristico e medico di effettuare tutte le attività del reparto.
Di tale organizzazione le signore sono generalmente informate dal personale infermieristico. Probabilmente però, la mole di attività svolta quel giorno in assenza di due unità infermieristiche previste in turno da un lato, e l’ansia che accompagna l’intervento chirurgico dall’altro, non hanno aiutato l’avvio di una adeguata comunicazione.
Ciò premesso, anche se l’attività del reparto di ginecologie riunite è piuttosto complessa, non sono giustificati aumenti di tensione nei comportamenti delle infermiere.
A tal proposito la Sua segnalazione ha indotto ad un incontro di riflessione su quelli che sono l’organizzazione e i comportamenti di tutti nei nello svolgimento dell’attività di reparto.
Ancora spiacenti per l’accaduto, restiamo a disposizione per fornirLe ogni ulteriore chiarimento riterrà opportuna e cogliamo l’occasione per porgerLe i nostri più cordiali saluti.
Il Direttore Generale
Dott. Walter Arossa