Generalizzando un po', si può dire che prima dell’11 settembre si sia vissuto, da un punto di vista prettamente geopolitico, in una specie di campana. Annoiatamente assorbiti dalle solite magagne nazionali, guardavamo al mondo come al solito "paludone": qualche gorgo qua e là, ma niente che eccitasse gli animi.
Il Giappone, al capolinea, lo si sapeva impegnato da una decade a ripagare i debiti della sua bolla finanziaria (che noia); l’orso ex-sovietico svernava in un sanatorio della Crimea, sottoposto a un regime forzato di dieta e disintossicazione (interessantissimo? Forse); nel bel mezzo, il malloppone indo-cinese "andava" (?); in Medio Oriente arabi e israeliani continuavano a odiarsi (e vabbe', si sa); l’Africa boh (comunque poco importava, giacché, The Economist ci aveva convinto che il continente nero fosse geopoliticamente irrilevante); e poi?
Gli USA, ah sì, gli States che facevano? La memoria è fumosa: c'era la storia di Clinton con la Lewinsky —lui, lei & il sigaro— e qualcos'altro, forse (la Trilogia del Signore degli Anelli in via di allestimento... No, quella era in Nuova Zelanda, vabbe'). Insomma, gli anni prima dell'11 settembre me li ricordo come anni discreti, anni apatici. Eppure...
Eppure quelli un po' più svegli –los otros— avevano prestato attenzione ai segnali che avrebbero dovuto far riflettere. Tanto per cominciare c'era stato un vero e proprio genocidio, totalmente passato sotto silenzio, perpetrato sotto l’egida dell'ONU: e non sto parlando del Rwanda —altra storia ineffabile, di cui ancora non si conosce la verità vera- ma del milione di morti in Iraq, metà dei quali bambini, in nome del delirio di regime delle "sanzioni". C'era stato quell'interludio surreale dei capi talebani venuti in tournée in Texas, e, non meno allarmante, l'intervento NATO contro la Serbia, in occasione del quale ci unimmo ai caccia USA nel nome di quella che il premier d’Italì, l'ex comunista D'Alema, chiamò con pudore marziale "difesa integrata": una cosa ignobile, contro cui strillò da Belgrado il solo Santoro in quel lontano 1999. Di questo mi ricordo, vagamente. In verità un poquito ci si eccitò, in quell'occasione, ma poi si tornò a letto, sotto le pezze, a sonnecchiare.
Finché un bel mattino vedemmo tutti le immagini di New York. Allora, come sappiamo, le cose cambiarono e cambiarono sul serio. Ci si risvegliò, o almeno così sembrò. È certo, comunque, che scendemmo dal letto. Non giurerei però che il nostro, da allora, non sia stato il girovagare di un sonnanbulo.
L'11 settembre mi trovavo in America e stavo per iniziare il mio secondo anno come assistant professor alla University of Washington. Era un paese di cui possedevo la cittadinanza dalla nascita, in cui avevo vissuto e studiato a lungo, un paese del quale, dall'alto della mia privilegiata presunzione europea, pensavo di aver capito tutto, e del quale pensavo di amare (quasi) tutto. Ma osservarne la trasformazione, o meglio, la variazione dell'umore collettivo fu come un elettroshock. Quando vennero giù le torri fui immediatamente tra coloro che non credettero a una singola parola della versione ufficiale. In verità, durante le prime due settimane, furono in tanti, d'istinto, a porsi scetticamente rispetto alla storia del folle complotto dei 19 arabi con gli apriscatole votatisi alla causa sacra di "umiliare il Grande Satana". Ma di lì a poco la campagna propagandistica dell'amministrazione neo-conservatrice di Bush jr. si dispiegò in modo così dirompente e così martellante da riuscire a irregimentare e ad orientare bellicosamente la massa degli americani (e, diciamolo, anche degli europei) con un'efficacia e una rapidità a dir poco strabiliante.
Sulla motivazione e plausibilità degli attacchi dell'11 settembre ciascuno creda quel che gli suggerisce il buon senso: non voglio tanto soffermarmi su questo mistero, quanto sulla mentalità, o meglio sugli sviluppi concettuali che hanno preso forma nella mente occidentale al progredire di questa vicenda a partire da quel fatidico giorno. Ammesso e non concesso che fosse vero quel che ci veniva assicurato dal sistema mediatico occidentale su questa mirabolante avventura dello sceicco disneyano Bin Laden e della sua tremenda rete terroristica, vi era infatti nel contorno tutta una serie di accadimenti che la dicevano lunga: eventi rivelatori del pensiero e dei pregiudizi in voga tra la massa degli occidentali, su cui il solito "sistema" avrebbe saputo far leva assai sapientemente. È stata inenarrabile la désinvoluture con cui sono riusciti a venderci menzogne e morti, morti soprattutto; uccisioni di innocenti a non finire, come quelle recenti di centinani di bambini in Afghanistan, per non parlare di quelle in Iraq: tutto questo in nome di una perfettamenta assurda necessità di combattare (e uccidere) nel vicino Oriente e in Asia centrale in nome della "sicurezza". Già, della sicurezza di difendere le nostre frontiere —e quelle americane (!)— dall’Eufrate all'Hindu Kush...
Se avessero creduto veramente a quel che dicevano, era dunque legittimo prevedere che prima di muovere chicchessia gli americani avrebbero dovuto dare inizio a un'inchiesta, indire un processo in cui accertare la verità dei fatti, seguire un'istruttoria e portare al banco degli imputati dei sospetti. E invece niente: a quanto pare furono sì colti di sorpresa, ma due secondi dopo sapevano, dei cattivi e del loro modus operandi, tutto. Al diavolo l’inchiesta, si parte, si va in guerra. Subito. E tutti zitti. A dispiegare truppe in Afghanistan ci misero appena due settimane (anzi, sembrava, che alcune portarei anglo-americane ronzassero nei paraggi addirittura prima dell'11 settembre). Era ovvio che finalmente si poteva "disincagliare" la situazione in Asia centrale e in Medioriente, che si era arenata intorno al 2000 con i Talebani da un parte e Saddam dall'altra. Allora un po' di scetticismo riaffiorò, e alcuni benpensanti misero in circolazione, alla stregua degli epicicli tolemaici, una popolare variazione sulla dottrina ufficiale, secondo cui gli attacchi erano reali —cioè di matrice musulmana—, ma gli USA se ne erano serviti cinicamente per fini loro (cioè, soldi: i soliti affari delle cattivissime corporation). Ma la buona fede del governo USA non andava messa in discussione, e men che meno la cattiveria revanscista dei pazzi di Allah.
L'allucinazione non fece che espandersi. Nel frastuono di immagini delle torri gemelle, delle sparatorie nel deserto e dei marines che bestemmiavano in presa diretta in visuali che sembrano mutuate dalla saga di Rambo (il tutto regolarmente introdotto da patriotticissimi e machissimi presentatori che digrignando i denti giuravano che se avessero potuto si sarebbero uniti ai pattugliamenti al fine di strangolare Bin Laden con le proprie manine), in tutto questo coloratissimo e sincopato caos televisivo a stelle e strisce si venne poi a sapere che di quella fantasmagorica cava sotterranea hi-tech da cui, secondo l'ex-ministro alla Difesa Rumsfeld (ve lo ricordate?), lo sceicco folle avrebbe orchestrato l’attacco come in un film di James Bond, non v’era traccia. Così come dall'Iraq nel 1991, gli spettatori venivano informati televisivamente 24 ore al giorno senza di fatto vedere o capire nulla di ciò che stava realmente accadendo. Poco male. Passata l'estate si cambiò marcia, avanti tutta alla volta dell'Iraq. E Bin Laden? Dall'Afghanistan, naturalmente, il saudita si era dileguato all'ultimo minuto (e certo, sennò finiva il film): ma non ci avevano detto che era il criminale più feroce della galassia? Nell’autunno del 2002, il satanasso barbuto era già passato di moda. Allora Bush jr. andò in diretta e senza battere ciglio, con quel fare trasandato e terra-terra che tanto piacque alla maggior parte degli americani (proprio così), affermò che a Bin Laden non pensava più granché, no, adesso a occupargli la mente era... Saddam!
A questo punto, negli Stati Uniti, di Afghanistan si smise virtualmente di parlare, con i media europei a rimorchio. A tenere quella fiammella accesa, a latere (non si sa mai), ci si sarebbe pensato con lo show di Guantanamo. Si sa, di lì a poco avrebbero cominciato con tutta quella messinscena delle armi di distruzione massiva in Iraq e così di seguito. Ci furono, sì, le manifestazioni contro la guerra del 2003, ma durarono pochissimo, e non riuscirono minimamente a intralciare il percorso dei guerrafondai. Guerrafondai che fino ad oggi sono perfettamente riusciti a tenere a bada i dissenzienti. Come? Con il jolly dell’11 settembre, appunto.
Cosa si può dunque desumere da tutta questa ricapitolazione? Che sarebbe stato essenziale cominciare col mettere in discussione la versione ufficiale dell’11 settembre? Tutta la concatenazione degli eventi successivi ne prova la poca attendibilità, ma non è questo il punto. Cosa abbiamo capito, dunque? Che l’apparato del potere mondiale con le sue armi, le sua informazione controllata e i suoi soldi è sovrastante, imbattibile? Vero anche questo, ma non basta. In fondo, cosa ha concesso a questa cosa indecente che si autodefinisce the international community di mandare avanti, in quest’ultima fase storica, questa macchina di morte e menzogne per quasi un decennio in totale impunità? È stato, non meno dell’opportunismo e dell'ignoranza, il nostro razzismo. Il nostro integralismo occidentalista.
Ci siamo sobriamente bevuti le contraffazioni dell'establishment NATO-USA-ONU-Eur.Comm. –prima tra tutte quella di un'improbabile, acrimoniosa rinascita islamica alle soglie del terzo millennio— perché in fondo disprezziamo tutto quello che ci è (tecnologicamente e commercialmente) "inferiore". E se a questo aggiungiamo il nostro laicismo fanatico e ortodosso (ortodossia che ci rende inclini ad associare automaticamente comportamenti religiosi a condizioni di sottosviluppo economico cronico), si capisce cosa ha fatto sì che prevalesse la visione più o meno apertamente imperiale con cui abbiamo accettato l'ineluttabilità dello "scontro delle civilizzazioni", o più esattamente dello scontro della nostra civilizzazione contro tutte le "altre".
Già, The Clash of Civilizations. Si sa, l’espressione venne coniata nel '93, all'epoca del riassesto post-Sovietico (di fatto, il preludio all’era dell'11 settembre), dall'accademico di Harvard Samuel Huntington, recentemente scomparso. Personaggio inquietante, questo Huntington, per chi ne avesse seguito il percorso, dai primi trattati da "guerriero freddo" al programma "trilaterale" in cui preconizzò limiti alla democrazia, fino all'ultima fase produttiva sul conflitto culturale e la glorificazione del ruolo egemone del protestantesimo yankee: un vero dottore straussiano (dalla scuola di Leo Strauss) della fascisto-tecnocrazia "made in the USA". Il succo dell’argomento, si sa, è che dopo la caduta del comunismo, le nazioni del mondo si sarebbero accanite l'una contro l'altra (di pace universale guai a parlarne) lungo linee di demarcazione non più politiche, bensì culturali: maomettani contro cristiani, slavi contro europei, cinesi contro tutti. La prescrizione, quindi, era ovvia: fare quadrato intorno alla fortezza NATO, resistere, contrastare e infine... contrattaccare ("The West versus the Rest"), nel nome supremo della "democrazia occidentale", beninteso. Era un brano di una irresponsabilità e di una sciocchezza sublimi; e diventò, dalla sua pubblicazione, il caposaldo delle relazioni internazionali in ambito discorsivo, con l’imprimatur dei poteri forti occidentali. Inutile dire che a cose fatte venne ripescato e sparato con veemenza da tutte le piazze propagandistiche d'occidente in accompagnamento al dispiegamento militare post-11 settembre.
Colpo maestro. Non passò neanche un anno, e tutta l’opinione pubblica occidentale poteva dirsi intelligentemente convinta della tangibile esistenza di un conflitto irrisolvibile con questi arabi musulmani, intrattabili. Che lo dicessero gli americani, isolani e ignoranti by default, era già gravissimo, ma che lo rigurgitassimo noi europei, che dell'Islam siamo i dirimpettai, era imperdonabile. Noi europei che avremmo dovuto conoscere (almeno un po') la realtà sociale e culturale di quel mondo e comportarci di conseguenza. E invece non la conoscevamo affatto, altrimenti non avremmo reagito così, cioè senza far nulla, nei fatti appoggiando vigliaccamente e presuntuosamente la politica degli americani (come sempre d'altronde). Siamo stati e rimaniamo ignoranti, convinti tuttora di essere "meglio" e, per questo, esonerati dall'approfondire le ragioni degli avvenimenti.
All'epoca la mia reazione a questo sconvolgimento e obnubilamento propagandistico fu ugualmente isterica, ma di segno opposto. Bombardato non meno degli altri, mi "convinsi" che fosse realmente in atto una recrudescenza storica dell’Islam, ma che quest’ultima fosse una sanissima folata di vento spirituale, nata in reazione alle degenerazioni della globalizzazzione, e che andasse perciò difesa, malgrado le derive estremistiche. Ma volli essere certo, volevo toccare con mano. Così feci domanda presso il Dipartimento di Stato americano per una borsa che mi consentisse di andare a passare un periodo in Medio Oriente, insegnando presso un ateneo locale e conducendo una ricerca su islamismo e finanza islamica. La domanda venne accettata e per quasi un anno, nel 2005, feci base ad Amman, Giordania, e alla University of Jordan. In quel periodo viaggiai attraverso Siria, Libano, Giordania, Egitto e Israele, avendo così modo di osservare, interlocuire con, nonché intervistare centinaia di persone di tutti i tipi e di tutte le età. Fu un'esperienza indimenticabile.
Riscontrai che di questo maledetto "scontro delle civilizzazioni" non v’era neanche il più recondito sentore. Una pura invenzione. Vi trovai una popolazione povera, totalmente inconsapevole di quanto si sparlasse sul suo conto e confusa da tutto questo assurdo intrigo geopolitico finanche più di quanto lo fosse la nostra. Confusi e impotenti come noi, ma senza l’arroganza che ci distingue. Il revanscismo acrimonioso lo trovavi semmai, e di rado, tra qualche giovane predicatore della fratellanza islamica, ma era roba da teatrino politico. Queste erano nazioni povere, lo ripeto, e totalmente filo-occidentali; anche la loro gente, tutti fan di Maldini e Julia Roberts. In quella terra affascinante che è la Siria, ad esempio –stato che allora veniva indicato dal Pentagono come tra i più "a rischio"— fummo accolti da una particolare ospitalità, da ritmi lenti e languide riflessioni nei bazar sulla difficoltà dei tempi. Dell’Islam, che dire? Che stava lì, solido e conservatore come sempre, non a minacciare l’occidente ma a tenere coeso quel che c’era da unire in un mondo in sfacelo (è stato grande soltanto 1.000 anni fa) e minato da tetri giochi di potere che durano da un secolo, e di cui, ne rimango convinto, ben più della metà della colpevole responsabilità è nostra.
Questo era dunque il mondo dello scontro delle civilizzazioni... Un pezzo di cartone, un ologramma insudiciato datoci in omaggio per far fare i giochi "in alto". Di Bin Laden si avvertiva lo sguardo virtuale più in America che non nel souk di Amman il venerdì pomeriggio, a dispetto del fatto che, certo, a Gerusalemme, la tensione fosse forte, e che le prediche anti-occidentali in moschea non mancassero allora come oggi. Ma come potrebbe essere altrimenti? Eppure con i colleghi europei e anche americani non facevamo altro che ripeterci quanto fossimo sbalorditi di quanto gli arabi fossero aperti e candidamente amichevoli con noi. Ci chiedevamo come facessero a non generalizzare e, d’istinto, a respingerci con ostilità al primo incontro. "Ma com’è che non ci odiano?". E così andò.
Sono passati quasi dieci anni dall'11 settembre, e cinque dal mio soggiorno in quelle terre: continuiamo a sentire parlare di terrorismo, di morti in Afganistan, di vignette odiose, del solito fanatico da Guantanamo che "confessa", di islamismo truculento, di satira anti-islamica, di corano, fede, "democrazia", veli, minareti accorciabili; di tutta questa spazzatura mediatica con cui si rende la pacifica coabitazione delle genti un sogno. E non me ne faccio una ragione.
Bisogna ripensare, ripensare tutto. O quasi.
L’inganno dello “scontro delle civilizzazioni”
Questo post è stato pubblicato il 20 gennaio 2010 in islam,Stati Uniti d'America. Puoi seguire i commenti a questo post attraverso il feed RSS 2.0. o se vuoi lasciare un commnento.
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O mamma mia. Ancora col complotto delle twin towers. Magari la prossima volta ci sarà pure quello dell'apollo 11. Che barba. Concordo solo con la fatuità dell'idea di scontro di civiltà....ma anche quella è "roba da teatrino politico" tanto quanto i citati fanatismi siriani.
RispondiEliminaIn questo profluvio pieno di livore antiamericano e di terzomondismo d'annata c'era pure la denuncia del "laicismo fanatico e ortodosso". Aiuto.
Pensavo di essere su un blog d'ispirazione radicale, invece mi sa che sono finito su un blog dei centri sociali.
Concordi con l'inconsistenza dello scontro di civiltà che è il perno delle riflessioni proposte attorno al quale si sarebbe costruita una grande bugia a fini di controllo di scacchieri e fonti d'energia, ma poi dai dell'antiamericano all'autore.
RispondiEliminaBoh,
L'ultima discussione nata da un post simile dello stesso autore è stata lasciata agonizzare, senza risposte, oltre un mese fa. Non era, forse, meglio continuare su quella strada?
RispondiEliminap.s.: per curiosità, questo articolo e il precedente sono pubblicati su qualche giornale, blog o altro sito oltre che qui, su metil?
@fabietto: certo, questo è un blog di ispirazione radicale. Infatti ciascuno esprime liberamente la propria opinione. Autore compreso.
RispondiElimina@Lord of Chaos: no, Guido l'ha scritta apposta per postarla qua.
Bel post, non poi così anti-americano (a meno che essere anti-americano non voglia dire pensarla in modo diverso da loro), bello soprattutto perché riscopre quello che dovrebbe invece essere chiaro da secoli, ovvero che le guerre (o gli attriti) tra stati sono creati nella maggioranza dei casi dai governanti e non dalle popolazioni.
RispondiEliminaConcordo su due cose:
RispondiElimina• L'idea dello scontro di civiltà è una colossale stronzata.
• La Siria è un paese affascinante, con una popolazione ospitale.
Nel 1975 ad Aleppo e a Hama avrei voluto restare, ma non avevo trovato un lavoro che mi permettesse di guadagnare abbastanza per vivere. Il dittatore di allora era il padre di quello attuale e stava sotto le ali dell'Unione Sovietica, ma la gente preferiva l'Occidente. A un caffè di Hama ho avuto la stupida idea di interrompere una conversazione sulla cultura araba per chiedere ai miei interlocutori – un professore di filosofia e un giornalista – come mai il governo, amico dell'URSS, facesse impiccare i comunisti (avevo letto su un giornale locale in francese dieci righe di notizia su una doppia esecuzione). Sarei sprofondata: davanti a me due statue di sale, occhi sbarrati, volti verdi dalla paura. Il silenzio è durato un'eternità, poi Rezuan, ancora sconvolto, con un filo di voce ha farfugliato qualcosa sulle bibite.
Qualche anno fa, immobile al computer e con nostalgia di viaggi, cerco pagine su Hama. Scopro che il bellissimo centro storico non c'è più, raso al suolo a cannonate dall'esercito siriano nel 1982 per stroncare la rivolta dei fratelli musulmani. L'artiglieria aveva riportato la quiete attraverso un orrendo, indiscriminato massacro: 38mila morti secondo il comandante militare (fratello del presidente), che si vantava del buon esito dell'operazione. In precedenza, gli attentati dei muslim brothers avevano fatto centinaia di vittime.
Insomma, l'islamismo truculento – quello che nelle sue scuole educa l'infanzia alla bella morte (che cosa fare da grandi? i martiri, gli attentatori suicidi) – è una dannata realtà:
— colpisce da tempo con continuità e forza soprattutto nei Paesi a maggioranza musulmana, asiatici (non solo nel Vicino Oriente, anche nell'Asia lontana) e africani, in genere di inesistente o gracile democrazia;
— si infila in conflitti nati con un carattere prevalentemente etnico o indipendentistico, cercando una saldatura con i movimenti armati nel nome della jiad mondiale (come in Cecenia).
Con l'undici settembre 2001, con l'11 marzo del 2004 alla stazione di Madrid (186 morti, più di mille feriti) la violenza di queste frazioni minoritarie del mondo islamico arriva in Occidente e solo allora sale nelle posizioni di testa dei problemi del mondo; ciò non era successo, per esempio, durante la sanguinosissima guerra civile in Algeria,, dodici anni di guerra considerata conclusa nel 2002, ma che in certe aree non si è mai spenta.
Qui il discorso non finisce, comincia. Ma è un casino confrontarsi nello spazio dei commenti di un blog non su un fatto di cronaca, ma sulla lettura di come gira l'universo del bestiale genere umano ;)