Il compleanno della mia mamma [di GC - Giovane Coscioniana]

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Domani mia mamma avrebbe compiuto 61 anni. Ma il condizionale è d'obbligo, perchè nel 2006, in un intervallo che tutti hanno definito brevissimo, un tumore se l'è portata via. Per quel che mi riguarda però, questa dicitura del “portar via” non ha altra valenza se non quella della locuzione grammaticale, perchè nella lotta contro la malattia l'unica vincitrice è stata solo e soltanto lei, mia madre, che con indescrivibile dignità ha saputo vivere il suo solitario dolore, fronteggiando i colpi di bastone che alle sue speranze di “malata” ogni giorno venivano inflitti da più fronti... Questo post è un modo per farle gli auguri. Ho conosciuto l'Associazione Coscioni nel 2005, in occasione dei referendum per la fecondazione assistita, ma fu un interessamento che, per quanto profondo, non mi spinse ad approfondimenti che andassero al di là dei temi posti all'attenzione dalle consultazioni popolari. Poi, dopo meno di un anno, la possibilità maligna offertami dalla vita di confrontarmi con la malattia, col dolore, con la sofferenza mentale e spirituale e infine con la morte della persona più cara che avessi, mi spinsero a interrogarmi ulteriormente. E con il cosiddetto “caso Welby”, finalmente, tutti i nodi vennero al pettine. Vissi quella storia con incredibile empatia, con indescrivibile trasporto. Litigavo con coloro che s'infastidivano alla vista del corpo immobile di quell'uomo, a mio avviso soltanto spaventati da quei suoi occhi ineluttabilmente vivi. M'inorridivo alle dichiarazioni vaticane e al contempo mi convincevo che tutti coloro che si arrogavano il diritto di imporre il “che fare” a quella persona ed alla sua dignitosa sofferenza, non avevano mai guardato al dolore da vicino. La mia mamma è morta in fretta, per quanto veloce possa essere una morte. Ma vedere la sua vita fuori dalle sue mani e dipendente dalle parole dei medici, dalle azioni degli infermieri, osservarla giudicata dagli occhi compassionevoli di coloro che passavano e le gettavano uno sguardo, senza conoscerne la tempra, il coraggio, la forza e la vita, mi ha fatto pensare e probabilmente anche capire qualcosa. Mi ha fatto pensare che non è con i dogmi che si difenderà la vita, nè sarà con l'assolutismo che Santa Romana Chiesa riguadagnerà terreno (posto che a questo punto possa ancora riuscirci). Mi ha fatto pensare che gli interessamenti, gli “sbracciamenti” e le strenue prese di posizioni della Roccella, del Vespa, o del Buttiglione di turno sapranno sempre soltanto gridare vendetta di fronte al dolore di quelli che, al contrario di loro, non potranno mai stracciarsi le vesti in televisione, costretti alla duplice censura della malattia e dell'informazione clericofascista del nostro paese. Mi ha fatto pensare che è fondamentale e doveroso restituire voce a coloro che gridano dalla prigione del loro letto, o di una macchina, perchè a parlare siano i diretti interessati e perchè proprio da loro provengano le proposte per una riforma del paese nel settore della ricerca scientifica e della sanità. Non so cosa avrebbe detto mia mamma oggi, di tutto questo abbaiare che si fa intorno alla vita della gente. Era cattolica, ma di un credo tutto suo che ben poco aveva da spartire con le parole dei monsignori ricoperti d'oro che oggi colonizzano giornali e tabloid. E mi piace pensare che oggi sarebbe d'accordo con me. E che se non lo fosse, passeremmo le ore a scornarci in una nostra, piccola, personale, battaglia di libertà. Auguri, mamma.

Una volta ho sparato ad un alce [di Astrid Nausicaa, l'altro lato del letto]

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Questa è assolutamente da non credere. Abbattei un alce, un giorno. Andavo a caccia, su, verso il confine col Canada, e abbattei un alce. Lo lego al parafango, e via. Me ne torno a New York, sull’autostrada. Però non mi ero accorto che l’avevo colpito di striscio: l’alce era solo tramortito. Alle porte di New York comincia a riprendere conoscenza. Eccomi dunque a viaggiare con un alce vivo sul parafango, laddove c’è una legge nello Stato di New York che lo vieta espressamente - di viaggiare con un alce vivo sul parafango - il martedì, il giovedì e il sabato. Vengo preso dal panico. Allora mi sovviene che un mio amico dà una festa in costume, quella sera. Prendo una decisione: vado e ci porto l’alce. L’imbuco e me ne lavo le mani. Detto e fatto. Arrivo e busso alla porta con l’alce appresso. Il padrone di casa ci accoglie sulla soglia. “Ciao”, gli faccio, “conosci i Solomon?”. Entriamo. L’alce socializza subito. Non se la cava mica male. Tanto più che un tale cerca, con una certa insistenza, di vendergli una polizza d’assicurazione. A mezzanotte c’è la premiazione per i costumi più belli. Vincono il primo premio i coniugi Berkowitz, travestiti da alce. L’alce arriva secondo. Come monta su tutte le furie! Lui e i coniugi Berkowitz si prendono a cornate, lì, in salotto. Si tramortiscono a vicenda. Ecco, dico fra me, il momento opportuno. Acchiappo l’alce, lo lego al parafango e via - torno nei boschi. Sennonché ho agguantato i coniugi Berkowitz. Ed eccomi a viaggiare con due ebrei sul parafango. Laddove vige una legge nello Stato di New York, per cui ciò è severamente vietato il martedì, il giovedì e soprattutto il sabato…La mattina seguente, i coniugi Berkowitz si risvegliano nel bosco in costume da alce. Di lì a poco il consorte viene abbattuto, imbalsamato ed esposto, come trofeo di caccia, al Circolo Atletico di New York. È da ridere, veramente, perché a quel club non sono ammessi gli ebrei. I shot a moose once, Woody (1978)

Breve racconto simbolico con morale poco chiara all'autore stesso [di Aioros]

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L'altro giorno ero in fila alla posta: la macchinetta dei biglietti non funzionava, per cui ero in fondo al classico serpentone sbuffante pieno di vecchietti e casi umani assortiti. L'unico sportello attivo era occupato da più di mezz'ora da un ragazzo senegalese che aveva qualche difficoltà a comunicare con lo scazzatissimo impiegato - e che non sembrava per nulla vicino alla risoluzione del suo misterioso problema - quando un tizio all'inizio della coda ha borbottato "quanto ci mette il negro di merda".Immediatamente un signore ben vestito sulla sessantina si è voltato ed è partito con l'ovvia sequenza - "ma come si permette", "lei è un razzista", "si vergogni", eccetera. E' stato allora che ho capito tutto. "Ehi", faccio al signore, "si vergogni lei. Lo insulta solo perché la pensa diversamente sui negri: in effetti si sta comportando proprio come un razzista". Interviene una ragazza più avanti e mi grida, "ma stai zitto, non vedi che anche tu stai discriminando quel signore solo perché discrimina i discriminanti?", al che ho risposto semplicemente "che ne sapete voi femmine". Il primo tizio si è scaldato: "cretino, bisogna avere rispetto per le donne!", un altro ha gridato "bisogna avere rispetto anche per chi non le rispetta!" e cinque minuti dopo erano tutti a menarsi fuori, io ero il primo della fila e del senegalese nessuna traccia.

La Casa di Tonia [di Malvino]

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Vi sarà certamente capitata sotto gli occhi la carrellata di volti noti e meno noti del mondo artistico napoletano prestati allo spot televisivo de La Casa di Tonia, iniziativa dell’arcivescovo di Napoli, il cardinal Crescenzio Sepe. Per intenderci, è quello nel quale Beppe Barra (se non lui, un altro tra gli altri) dice: “L’idea è robba di Sua Eminenza”, o qualcosa del genere, comunque con tono molto caldo e complice. Spot fighissimo, chissà quando sarà costato spararlo così spesso e in fasce orarie solitamente salatissime. Cioè: chissà quanto sarà stato scontato, perché caritatevolmente indirizzato. L’iniziativa, infatti, invoglierebbe.Si tratta di costruire – recita il sito web de La Casa di Tonia – “un asilo nido multietnico intitolato a Tonia Accardo, madre coraggio di Torre del Greco morta a causa di un tumore non curato per portare a termine la gravidanza e consentire alla sua bambina di nascere”. In tv non c’era tempo per spiegare chi fosse Tonia, c’era da chiedere l’euro tramite sms (l’obolo, a differenza dell’ovulo, può servirsi della Techne).Tutto molto bello, ma se il mio euro servisse a pagare proprio la targa sulla porta dell’asilo, intitolata ad un esempio di vita ch’io non condivido?Soprattutto, a voler sollevare una questione ingenua fino all’insultante: con un solo pezzo del tesoro di San Gennaro quanti asili si possono costruire per intitolarli a tutte le sante preferite? Ma dove sta scritto che solo lo Stato può dismettere e la Chiesa mai? Pure la regina Elisabetta ogni tanto mette all’asta qualche chincaglieria per benificenza. La monarchia vaticana è quella che ha la manina più rattrappita sui propri gioielli. I principi della Chiesa scenderanno mica nottetempo in duomo per indossarli?Ecco, visto? Si finisce con l’usare argomenti da anticlericali di stampo ottocentesco, di fronte a un clero di stampo ottocentesco.

Lorenzo, simpatico rompiscatole [di Poverobucharin]

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Lorenzo Milani mi ha sempre fatto simpatia, ma è la simpatia che si può provare nei confronti di un amico fidato ma un po' stronzo, uno di quelli che prenderesti a pugni e abbracceresti con la stessa passione. Sì, perché Milani è il rappresentante di un cirstianesimo cazzone e cazzuto. Cazzone, perché per giustificare una presunta compatibilità fra cristianesimo e democrazia, arriva a fare dire a Paolo di Tarso che bisogna ubbidire al padrone anche se cattivo, ma non se ordina cose cattive (salto mortale con doppio avvitamento). Cazzone, perché avvicinandosi al pensiero socialista e a quello democratico trascura completamente quello liberale, approdando così ad una concezione assoluta della verità, un po' indigesta per chi si fida del meccanismo popperiano di falsificazione. Cazzone perché trascurava la dimensione ludica dell'apprendimento. Cazzuto perché era arrivato ad un concetto di laicità delle istituzioni che possiamo benissimo sottoscrivere. Cazzuto per le critiche al concetto di autorità, anche se richiò concretamente l'eresia (e da eretico mi sarebbe stato ancora più simpatico. Cazzuto perché, seppure per vie traverse, delinea un concetto di persona che con un po' di sforzo si può intendere come individuo. Mi piace dunque il cristianesimo di Milani? No, ma mi sta simpatico chi rompe le palle, e lui in questo era maestro.

Quando si dice preoccuparsi per le donne [di Galatea]

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Il ministro Carfagna si è detta preoccupata perché la pillola abortiva può avere effetti nocivi per la salute delle donne.Non si tratta, beninteso, di moralismo, ma di una motivata e assolutamente innocente ansia per evitare che alle donne possa essere prescritta, da medici laicisti e senza scrupoli, una medicina potenzialmente pericolosa per la loro salute. Strano, però. Si preoccupa solo per la pillola del giorno dopo. Mica che si preoccuppi per un possibile abuso nelle prescrizione di aspirine...

Ministri del... culto [di Bleek]

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ministroc salute vaticano

Combattiamo la discriminazione con la musica: Freddie Mercury [di Mariuzzoweb]

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Sebbene sia stato aspramente criticato,Freddie Mercury,cantante del gruppo rock Queen, simboleggia ancora oggi un modo di vivere l'omosessualità in maniera del tutto normale. Temendo infatti perdite affettive da parte dei fans e della famiglia,Freddie non rivelò mai apertamente la sua omosessualità;gli anni in cui visse erano si gli anni delle prime "mode" gay,ma in quanto personaggio pubblico, preferì mantenere la sua vita privata lontano da occhi indiscreti. Una testimonianza del suo combattuto stato d'animo si può leggere fra le righe della famosissima canzone Bohemian Rhapsody,di cui pubblico qui di seguito il video e il testo tradotto,cosicchè arrivi anche ad i non anglofoni il messaggio. È questa la vera vita, è questa solo fantasia? Perso in una frana, senza scampo dalla realtà Aprite gli occhi, alzate lo sguardo verso il cielo e vedrete Sono solo un povero ragazzo, senza bisogno di comprensione Perché mi faccio trasportare facilmente Un po' su, un po' giù Comunque il vento continua a soffiare, a me in realtà non importa Mamma, ho appena ucciso un uomo, ho puntato una pistola alla sua testa Ho premuto il grilletto, ed ora è morto, mamma La vita era appena iniziata, ma ora io l'ho gettata via Mamma, ooh Non volevo farti piangere Se non sarò tornato domani a quest'ora Va' avanti, va' avanti, come se niente fosse accaduto Troppo tardi, è giunta la mia ora Ho i brividi lungo la schiena, il corpo duole in continuazione Addio a tutti, devo andare Devo lasciarvi tutti e affrontare la verità Mamma, ooh, non voglio morire A volte desidererei di non essere mai nato Vedo una piccola sagoma d'uomo Spaccone, spaccone vorresti ballare il fandango? Fulmini e saette, molto, molto mi spaventano Galileo, Galileo Galileo, Galileo Galileo figaro, magnifico Ma sono solo un povero ragazzo e nessuno mi ama È solo un povero ragazzo di una povera famiglia Risparmiate la sua vita da questa mostruosità Uno che si lascia trasportare facilmente, uno semplice, mi lascerete andare Per l'amor di Dio! No, non ti lasceremo andare - Lasciatelo andare Per l'amor di Dio! Non ti lasceremo andare - Lasciatelo andare Per l'amor di Dio! Non ti lasceremo andare - Lasciatemi andare Non ti lasceremo andare, lasciatemi andare - Mai Mai lasciarti andare - Lasciatemi andare, non lasciatemi andare mai, ooh No, no, no, no, no, no, no Oh mamma mia, mamma mia, mamma mia, lasciatemi andare Belzebù ha messo un diavolo da parte per me, per me, per me Così pensi di potermi lapidare e sputarmi in un occhio, Così pensi di potermi amare e lasciarmi morire Oh bambina, non puoi farmi questo, bambina Devo solo uscire, devo solo uscire di qui Oh sì, oh sì, niente m'importa veramente, chiunque può capirlo Niente è veramente importante, niente m'importa davvero Comunque il vento continua a soffiare Mario Guagliardo

I’ll come running to see you again [di D.]

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"Bella Dani, pensavo che la colazione più glamour della mia vita rimanesse quella che ebbi a Essaouira una decina di anni fa con Nick Cave, e invece no !!! Stamane, ore 9.20, Bar (infinita) Tristesa, from Opera (Mi): Claudio Agostoni !!!" Questa è una mail del Panz che mi è arrivata stamani. Ve ne ho mai parlato? Del Panz, dico. Lui e il Bepi sono i miei due colleghi. Limitartli a 'colleghi' è decisamente troppo poco.. Ci divertiamo come matti, litighiamo come matti, ci vogliamo bene come matti. Ci cerchiamo, sempre e comunque. E dovunque ci troviamo. Col Bepi c'è un rapporto di amore e odio. Ci adoriamo ma… caspita se discutiamo! Siamo due teste dure, e a volte lui usa un tono che a me manda in bestia. Mi accompagna a fare shopping, sempre. Io nei negozi sono rapida ed indolore Mi porta in camerino abiti che nemmeno avrei notato, e ci azzecca sempre. Poi mi da sempre molta soddisfazione quando esco dalla tendina e mi vergogno. Ha gusti molto diversi dai miei. Mi fa leggere libri e mi fa ascoltare dischi che mai comprerei. E mi piacciono ogni volta. Ridiamo per tutto e tutti, come con il Panz. Io ho una memoria di ferro, il Bepi meno, perciò quando si impunta su alcune cose e crede di avere ragione, la mia soddisfazione nel dargli il ben servito è immensa. Ci confidiamo anche molto, a nostro modo. Facciamo la telecronaca via sms dei programmi più trash del mondo. Lui cade spesso nell' "indie" e io cerco di resistere. Siamo tutti e due snob a vicenda. Lui un po' di più. Ad italia wave si è offeso perché gli ho detto che tal gruppo non gli piaceva solo perché non l'aveva scoperto lui. Un fondo di verità c'era secondo me. ma è vero che gliel'ho detta proprio da stronzetta quella cosa. Il Bepi ogni tanto rinnega il suo paesino veneto dal quale proviene, se lo sente ancora stretto quando ci ritorna. Sta da Dio nella grande metropoli. Il Bepi ha la capacità di chiedermi la stessa identica cosa dieci volte in un'ora. Il Bepi si preoccupa molto della mia salute fisica e non. Adora la mia pancia che aumenta giorno dopo giorno e le mie borse sotto gli occhi. È molto protettivo con me. Ha paura che mi faccia male. Devo a lui la mia ottima dizione.. eheh E' veneto e stando accanto a lui da ormai tre anni e mezzo, ho preso a parlare come lui, con vocali chiuse etc. Bepi mi porta quasi sempre un cioccolatino quando torna dal pranzo. Bepi mi vede sempre quando picchio contro qualche mobile e mi ride in faccia per mezz'ora. Conosce i miei gusti ed è sempre attento a ciò che faccio. Mi imita quando scrivo gli sms, mi descrive cosa faccio con il viso mentre digito e mi fa troppo sorridere. A me e al Bepi piace pranzare insieme, magari nella piazzetta S. Alessandro dietro alla Fnac. Tengo molto alla sua opinione. Poi faccio di testa mia, ma ci tengo molto. Ai concerti e ai festival è una delle persone con cui mi diverto di più. Facciamo gli scemi, adocchiamo i personaggi famosi e non, ridiamo, e continuiamo a fare gli scemi. Diamo fastidio a volte, e me ne rendo conto, perché ci capita di ridere e parlare di cose che sappiamo solo noi. Ma succede. Come con il Panz. Mi ricordo tutto di lui. Ogni cosa che mi ha raccontato da quando lo conosco. E se ne stupisce. La cosa che ha apprezzato di più è quando mi sono ricordata di un episodio a distanza di tempo, una strana storia di occhiali caduti per sbaglio dalla finestra di casa sua. Me ne racconta sempre tante di storie. Le sa raccontare trooooppo bene! Parliamo di storie di paese, leggende metropolitane, avventure familiari. E ridiamo. Lui di me e io di lui. Io non mi stanco mai di sentirlo parlare, e lui – lo spero – non si stanca di sentire parlare me. Per questo mi ha prestato 'Big fish' di Burton che non avevo mai visto. Ed è per questo che mi è piaciuto tantissimo. Per me e il Panz non c'è niente di banale, niente di cui vergognarsi mai. Abbiamo quasi vent'anni di differenza ma è come se fossimo della stessa generazione. Ci scriviamo un sacco di mail e ci dedichiamo un sacco di canzoni. Una delle più belle è "E ti vengo a cercare" di Franco Battiato, specie la frase "e ti vengo a cercare perché in te riconosco le mie radici". Il Panz fa il tifo per me, per il mio lavoro. Dice che certe cose che faccio è come se le vivesse anche lui. Io e il Panz amiamo stare in mezzo alle persone, osservarle ed emozionarci con e per loro. Le persone comuni per noi diventano dei miti. C'è il sosia di Andrea Mingardi che incontriamo quando torniamo a casa. Spesso dopo di lui incontriamo un ragazzo con un difetto di camminata, e più raramente (infatti è lui il vero mito), incrociamo un ragazzo con gli occhi a palla e uno zainetto giallo. Anche la volvo rossa parcheggiata di fronte al fruttivendolo in porta Ludovica è diventata un mito. Quando c'è. Ridiamo davvero di e per ogni cosa. Il Panz riconosce il mio profumo. Amiamo Roma e i romani, la loro romanità. Ci piace quando intervistano uno famoso, ci piace sentire le cose che dice, le cose che racconta. E se non le sentiamo insieme quelle cose, ce le segnamo per raccontarcele il giorno dopo. Lui è trasversale. Come me. Insieme andiamo a vedere un sacco di cose che molti trovano "da sfigati". Ma a noi è proprio per quello che ci piacciono. Adoriamo giuliano palma e i suoi balletti, carlo verdone, venditti e tutti i romani per le cose e il modo in cui le raccontano. Ci piacciono il calcio, Maurizio Milani, Bergonzoni, Van De Sfroos, Agostoni, Nanni Moretti… tutti i suoi film. Ci piace andare in piazza XXIV maggio a mangiare il pesce fritto al botteghino. A volte in Panz si incupisce. Dice di non reggere più di una persona alla volta, allora prende, esce e se ne va via da solo. Poi ritorna il solito Panz. Sono convinta che a lui piaccia molto il modo in cui racconto le cose. Mi entusiasmo mentre lo faccio, e lui apprezza, e mi invoglia a raccontargli tutto. Anche le cazzate più cazzate che a volte rimangono pensieri e basta. Penso che il mio essere così ingenua a volte sia la stessa cosa che invece non piace molto al Bepi. Non è poi che sia ingenua io, è solo che non seleziono, che mi va bene quasi tutto, che non sono molto selettiva nelle cose che faccio. Mi diverto sempre. O meglio, mi diverto comunque. Il Bepi ti prende in giro sempre sempre. Ti prende in giro e poi ride come un pazzo e tu non puoi fare a meno di ridere insieme a lui. Anche se è la decima volta che ti scherza sulla stessa cosa. Il Panz è cinico e a volte quando è così mi sta antipatico. Anche se per questa mia affermazione gli devo ancora una spiegazione. Il Bepi mi adora quando indosso il maglione blu bucato con sotto la maglia arancione. Il Panz mi adora in versione dani stripes, specie quando indosso il maglione giallo e grigio a righe. Io adoro il Bepi quando ha il maglione grigio e rosso carminio. E quando mette le Puma, quelle belle. Io adoro il Panz quando mette le kickers e la mia camicia verde preferita. In realtà adoro il Panz quando in estate indossa i pantaloni di raso blu gessati melanzana. Ma non li mette quasi più. Il Bepi è uno che ti abbraccia forte prima di salutarti per andare a casa. E quando gli chiedi: "Mi vuoi bene?", Lui ti risponde: "Abbastanza". Il Panz mi permette di camminare alla sua sinistra (non lo lascia fare quasi a nessuno, dice). La sua frase di saluto è sempre: "Ci sei domani?" E mentre stai guardando un concerto, mentre non te lo aspetti, ti si avvicina e in un orecchio ti dice: "Non so se tra tre anni saremo ancora amici, ma ti vorrò bene per sempre". Tutti e due ogni tanto si chiedono se sarò ancora amica loro da qua a qualche anno. Io non me lo chiedo perché lo so già che sì, sarò ancora al loro fianco. Il Bepi ti manda una mail con scritto: "Leggi qui, sembri tu" È il link di un blog di una ragazza che ha da ridire su tutto. E ha ragione, sembro io. Il Bepi mi sgomita in strada per farmi notare come è vestita una ragazza. Il Panz aspetta il mio pungente commento su come è vestita quella ragazza. Io e il Bepi uno accanto all'altro è difficile che riusciamo a starci. Abbiamo entrambi il vizio di tagliare la strada quando camminiamo, e se lo facciamo insieme ci scontriamo di continuo. Per quanto non mi piacciano affatto i rapporti esclusivi, ammetto che con loro due mi è difficile non crearli. Bepi, il Panz ed io siamo belli da vedere. Insieme, noi tre. Siamo come Cip & Ciop. Dove Bepi è Cip, Panz è Ciop e io sono quella & commerciale in mezzo. Commerciale, molto commerciale. Difficile da scrivere i primi tempi. E quando pensi di averci fatto l'abitudine, la volta dopo che devi scriverla ti ci fermi a pensare un istante. Quella 'e' commerciale che si impara ad apprezzare con calma, molta calma. Che per digitarla sulla tastiera non c'è un accesso diretto: bisogna prima passare per un altro tasto. Che puoi sostituirla con qualsiasi altra 'e', ma non sarà mai la stessa cosa. Non avrà mai lo stesso significato, perché a volte tra una cosa e l'altra ci sta bene solo quella &. d.

Ritorno a Beirut [di Naj You]

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Sono di nuovo a Beirut. Al controllo passaporti mi chiedono il luogo di provenienza, confusi dal nome orientale su un documento occidentale. Succede sempre anche in Italia, ormai ci ho fatto l’abitudine. La mia risposta in arabo provoca un sorriso divertito e un cordiale saluto di benvenuta. In poco tempo sono fuori dall’aeroporto: c’è il sole, il cielo è limpido e l’aria calda e accogliente. La prima volta che venni qui si era appena conclusa la guerra civile ed ero ospite di una zia che abitava in un quartiere-baraccopoli arrangiato nei pressi della pista dell’aeroporto. Le case erano di cemento mitragliato e lamiere e gli aerei scendevano talmente bassi che ad ogni atterraggio sembrava stessero precipitando su di noi. Dalle strade bucherellate emergevano sprazzi di terra rossiccia impregnata di puzza di benzina mista a odore di mare e cibo. Ero circondata da segni di vita e tracce di morte: l’orrore dei 150,000 civili ammazzati, intrappolato ormai per sempre in cumuli di macerie, proiettili conficcati e palazzi sventrati, conviveva con la vitalità spensierata dei sopravvissuti e dei bambini che facevano capolino da quegli stessi frammenti di case a rischio di crollo improvviso. La strada che conduce in centro è stata finalmente riaperta dopo il blocco dei giorni scorsi, causato dall’improvviso degenerare della crisi politica. Beirut è una metropoli-cantiere costruita su un territorio disomogeneo che va dal roccioso lungomare fino alle verdi montagne sovrastanti. In questi anni sono spuntati quasi dal nulla numerosi edifici che riflettono i raggi del sole e le calde onde del Mediterraneo. Sono in gran parte alberghi di lusso, centri commerciali all’americana o sedi di grosse multinazionali estere, costruiti con i fiumi di dollari provenienti dal ricco occidente. Ma ci sono ancora interi quartieri poverissimi e disperati abbandonati a se stessi da sempre. E’ difficile trovare vie di mezzo: l’estremo lusso squarcia la visuale dell’osservatore tanto quanto l’estrema povertà, confondendolo con apparenti e improvvisi sbalzi spazio-temporali dai contorni sfumati e psichedelici. Non si fa in tempo a ricostruire che si ricomincia a distruggere, e passato e presente diventano una cosa sola. Luoghi di culto cristiani e musulmani sono liberamente sparsi in ogni parte della città: moschee e chiese -cattoliche, ortodosse, maronite-sfiorano dolcemente gli animi dei fedeli con il flebile ma costante eco delle preghiere, amplificato dai microfoni dei minareti accompagnati dai ritocchi dei più decisi campanili. La moschea più maestosa è quella della piazza principale, conosciuta come Piazza dei Martiri, abbagliante sia di giorno che di notte nei suoi brillanti oro e turchese. Sulla cima della montagna si erge un Santuario dedicato alla Madonna, raggiungibile in funivia. Il Museo Nazionale di Beirut, colpito in passato dalla follia bellica, protegge ancora nelle sue teche le meravigliose eredità archeologiche delle antiche civiltà Fenicia, Romana, Ellenistica e Bizantina, attratte nei millenni dall’ancor oggi ambita posizione geografica a cavallo tra oriente e occidente. Giovani soldati dell’esercito nazionale sorvegliano con i mitra in mano i principali incroci stradali, protetti dalle ombre dei carri armati spenti. Il traffico non ha orari e scorre caotico intrecciandosi agli angoli dei quartieri che compongono la città. Per strada vecchie Mercedes scolorite corrono all’impazzata accanto a imponenti Suv americani, motorini sgangherati e pulmini impolverati senza portiere o finestrini carichi di donne e bambini al vento. Ogni tanto compare un mini-carretto di venditori ambulanti di cocomeri, patate o spremute d’arancia tenute al fresco da pezzi di ghiaccio. Chiassosi gruppi di scolaresche di ogni religione e ceto sociale affollano i marciapiedi interrotti per l’uscita dalle scuole arabe, francesi e americane. Uomini e donne guidano in modo folle, e non potrebbero fare altrimenti. Il codice della strada non esiste e l’unica regola vigente in questa giungla urbana trasformata in pista da corsa obbligata è la legge del più forte a premere l’acceleratore. Per le comunicazioni tra vetture c’è invece il clacson. Suonare il clacson serve a strappare la precedenza agli incroci, a non fermarsi agli stop, a prenotare un parcheggio in prima o seconda fila, a passare con il rosso, a tagliare la strada, a preannunciare un sorpasso da e verso qualsiasi direzione e, infine, a catturare l’attenzione di ogni essere umano avvistato a piedi, potenziale cliente per i migliaia di taxi circolanti. I mezzi pubblici scarseggiano, pertanto prendere un tassì o un pulmino-taxi è l’unico modo per spostarsi rapidamente se non si possiede una vettura. Il prezzo di una corsa è davvero irrisorio e si punta sul numero dei passeggeri. Il mio taxi senza finestrini procede spedito come gli altri, fermandosi comunque a caricare altre persone come se io non ci fossi. Dopo essere passata accanto ai disumani campi profughi palestinesi immersi nel fango e nella polvere, senza acqua e senza cibo, arrivo a destinazione nel popolare quartiere sciita, il cuore bollente della resistenza. Qui dovrebbe vivere in gran segreto uno degli uomini attualmente più ricercati al mondo, ovvero il capo politico e spirituale del partito Hezbollah, nato nel 1982 in seguito all’invasione israeliana del Libano. Gli sciiti hanno sempre creduto in lui anche per motivi religiosi: Hasan Nasrallah è un Sayyed, cioè un diretto discendente del Profeta. La sua forza politica è direttamente proporzionale alla percepita minaccia di un ennesimo attacco di Israele e al concetto di fratellanza e unità nazionale indipendentemente dal credo religioso, frequentemente enunciato nei suoi discorsi televisivi censurati dall’occidente. Il suo partito musulmano-sciita si è alleato politicamente con quello cristiano-maronita e oggi sono entrambi all’opposizione. In passato questi due gruppi religiosi rappresentavano gli estremi delle diseguaglianze sociali ereditate dalla colonizzazione francese, sfociate poi nella sanguinosa guerra civile. Dopo aver lasciato le valige decido di fare un giro a piedi nel quartiere per vedere cosa è cambiato stavolta. Un anno e mezzo fa venni a filmare e fotografare le voragini lasciate dai bombardamenti dell’estate 2006, e per poco non fui scambiata per una spia occidentale. Soltanto grazie ai miei documenti libanesi riuscimmo a convincere gli allarmati e armati addetti alla sicurezza a non arrestarmi. Non è invece andata altrettanto bene a un deputato francese che poche settimane fa è stato trattenuto per aver fotografato la zona sprovvisto di autorizzazione. Camminando a piedi vedo che anche qui è stato ricostruito più della metà di ciò che era stato abbattuto. Molti finanziamenti provengono dall’Iran, interessato alla questione libanese per le problematiche con Israele. Molti altri provengono invece dall’America e dall’occidente, interessati alla questione libanese per le problematiche con l’Iran. Un micidiale intreccio politico-economico mascherato dalle diversità religiose e dai presunti odi razziali reciproci. Al centro di questa ragnatela mortale è intrappolato il piccolissimo paese dei cedri, che da secoli tutto osservano senza scomporsi mai come se già sapessero come andrà a finire. La città vive di turismo ed è piena di mataaem, cioè luoghi per mangiare. Ci sono caffetterie e ristoranti di tutti i tipi, rosticcerie e gelaterie, pizzerie e fast food. Gli odori dei cibi più esotici e speziati si mescolano alle succulenti prelibatezze mediterranee, riempiendo l’aria di fame che non tutti potranno soddisfare. Tutto questo accanto a banche, supermercati, tabaccherie di narghilè e negozi d’abbigliamento prevalentemente “made in Lebanon”, ma non solo. Per i vestiti più chic o firmati è necessario recarsi al Hamra, ovvero nel ricco e lussuoso centro di Beirut, recentemente colonizzato dalle principali case di moda italiane e francesi. Osservo le donne e mi accorgo che il foulard per coprire i capelli è sempre meno usato e comunque in sintonia con jeans e magliette aderenti all’ultima moda, tacchi altissimi e unghie e bocche dipinte di rosso anche nelle più insospettabili figlie del Sud. Ogni tanto si intravede un’abaya in movimento, una sorta di mantella nera leggerissima e opaca che avvolge morbidamente le donne da capo a piedi, comoda soprattutto per uscire di casa senza cambiarsi d’abito. Sono le mogli dei più intransigenti, ma sono davvero poche rispetto alla maggioranza delle ragazze, bellezze floride e indistinguibili da quelle di casa nostra se non per la spensieratezza con cui affrontano l’esistenza. La tendenza generale è che qui non c’è tempo per deprimersi o lasciarsi imbruttire dalla malinconia : qui si vive che ogni giorno potrebbe essere l’ultimo, e si percepisce più che altrove. La guerra in tutto il Medio Oriente è un fischio acutissimo, un improvviso rumore assordante, i vetri che iniziano a tremare, i bambini a piangere tappandosi le orecchie e le persone ad abbracciarsi, inutilmente. Sotto il suono ininterrotto delle bombe il cervello è saturo di adrenalina, il battito accelerato, il respiro affannato tra vampate di calore e sudore gelido. I muscoli di gambe e braccia tremano spasmodicamente in preda al terrore, è iniziato l’infinito conto alla rovescia della nostra condanna a morte. Offuscati dal delirio si potrebbe fare qualsiasi cosa, l’ultimo gesto per il quale si sarà ricordati o dimenticati. Non si ha nulla da perdere, se non il proprio corpo avvelenato dalla rabbia e una mente irrecuperabile contaminata da impotenza, dolore e frustrazione sedimentatesi negli anni fino a diventare un veleno amaro e vischioso, un cancro inestirpabile che darà vita ad altro terrore e ad altre morti inutili. Giustizia e vendetta si uniscono e confondono in un abbraccio mortale, diventando l’unica arma di riscatto possibile contro il tragico destino riservato a questa gente da coloro che decidono per le vite degli altri stando comodamente seduti in poltrona. Adesso però siamo in un momento di pace, ed è come stare in Paradiso. Qualsiasi problema quotidiano scompare di fronte allo scampato rischio di andare a letto e rimanere spiaccicati sotto il proprio condominio sbriciolato. Perciò, nei momenti di calma tra una guerra e l’altra, regna una leggerezza d’animo lontana anni luce dai turbamenti esistenziali di noi occidentali. I disturbi psicologici e le nere depressioni sono solo un capriccio di pochi, di quelli che non hanno niente di serio a cui pensare e possono permettersi l’acquisto dei costosi farmaci non rimborsati dallo Stato. La mia visita in questi giorni coincide con l’apparente soluzione di una grave e ormai lunghissima crisi politica. Nonostante la caduta del governo nel novembre di due anni fa, il Primo Ministro Siniora non si è dimesso, forte dell’appoggio delle democrazie occidentali che hanno continuato a sostenerlo anche se costituzionalmente illegittimo. Da allora si è rintanato nel palazzo governativo suscitando la protesta di migliaia di giovani libanesi rimasti accampati mesi e mesi sotto le sue finestre con tende e tamburi. Un sit-in tanto pacifico quanto inutile. Solo qualche giorno fa, dopo l’ennesimo rinvio delle elezioni presidenziali, aveva giocato la sua ultima carta e ordinato di arrestare alcuni membri vicini ai partiti dell’opposizione cristiano-musulmana. Il direttore dell’aeroporto era stato destituito in quanto simpatizzante sciita e in poche ore il Libano era isolato dal resto del mondo con i suoi abitanti prigionieri del proprio destino. Le strade per il Sud e per Damasco erano state bloccate, l’aeroporto, le scuole e le università nazionali e internazionali chiuse a tempo indeterminato. Poteva fuggire solo chi aveva la doppia cittadinanza e la protezione dell’Ambasciata di appartenenza, sempre e comunque i più ricchi e fortunati. Si erano accesi i primi focolai di guerriglia urbana, alcuni manifestanti erano stati uccisi, alcuni quartieri occupati, negozi saccheggiati, il tutto secondo uno schema già visto e rivisto. Erano iniziate le scorte di viveri nei pochi supermercati ancora aperti. Ogni tanto saltava la corrente, ma solo in periferia. Le fazioni rivali avevano iniziato a scontrarsi anche nel nord del paese, su internet era apparso il video di un orrendo massacro prontamente oscurato dopo 24 ore. Dicevano fosse stato compiuto su mandato del governo. Sembrava la fine. Invece, dopo le tensioni dei giorni scorsi, stasera ci saranno i festeggiamenti per la crisi risolta. Grazie alla mediazione di un paese del Golfo Persico il governo ha ritirato gli ordini di arresto emanati contro i rappresentanti dell’opposizione, scoperchiando in extremis una pentola a pressione che era sull’orlo del collasso. Dopo ore e ore di riunioni e consultazioni è stato finalmente eletto il nuovo Presidente della Repubblica con il consenso di tutte le parti. Per tradizione doveva essere cristiano-maronita, e la tradizione è stata rispettata: è il Generale Suleyman. Un grandissimo sospiro di sollievo pervade tutto il Paese. In poche ore tutto torna alla normalità. Le saracinesche vengono rialzate, scuole e università riaprono come se non fosse mai successo nulla. La gente non parla di politica con gli sconosciuti, dall’altra parte non si sa mai chi si ha davanti. Cristiano o musulmano? Se cristiano, ortodosso o maronita? Se musulmano, sunnita o sciita? I tratti somatici delle diverse razze sono ormai indistinguibili, anche tra i figli degli emigrati all’estero i cui geni si sono mescolati a quelli degli altri continenti; la lingua parlata è la stessa come pure la terra che ogni giorno viene calpestata. In fondo siamo tutti libanesi e una sola cosa è certa: nessuno vuole un’altra guerra, le ferite del passato bruciano ancora. Scendo in strada anche io. La città si è riempita dei colori di tutti i partiti politici e delle immagini dei prigionieri di guerra e dei martiri. I clacson suonano più all’impazzata del solito e si spara non per uccidere ma per festeggiare l’ennesima rinascita. Nella bellissima piazza centrale viene montato un palco, proprio sotto il palazzo del governo, e organizzati concerti con i cantanti più amati. Artisti e costumi tradizionali appaiono all’improvviso come da un gigantesco teatro all’aperto. I Drusi della montagna, considerati eretici dall’islam tradizionale, sono i più pittoreschi: turbante, baffi all’insù e pantaloni alla zuava in luccicante rosso bordeaux accompagnato da scimitarra, vera o finta non si sa. Decine di fuochi d’artificio colorati risvegliano fischiando il cielo della notte, elettrizzato da un’atmosfera a metà tra il capodanno e il carnevale, ma forse più carnevale perché potrebbe essere uno scherzo e fidarsi è bene ma non fidarsi è meglio. Il centro si riempie di talmente tanti giovani che non c’è spazio per camminare. E’ incredibile la velocità con cui si riesce a passare da uno stato di guerra imminente a uno di pace apparente. In ogni angolo della piazza ci sono gruppetti di ragazzi che ballano il tradizionale dabkè, ammaliati e storditi dai tabacchi profumati e dolciastri dei narghilè con retrogusto proibito. Uomini e donne si muovono in cerchio tenendosi per mano e disegnando ampie figure omogenee governate dai tamburi impazziti. I passi sono veloci e non semplicissimi ma nessuno trova difficoltà, a parte la sottoscritta. La testa gira, fa caldo, si suda, manca l’aria, eppure il corpo non riesce a fermarsi, travolto dall’euforia di una felicità tanto intensa quanto effimera. Passati i primi giorni di festa, decido di lasciare Beirut e scendere verso Sud, nei pressi del contingente italiano dell’Unifil. Il paesino verso cui sono diretta era l’ultimo al confine con il territorio occupato nel 1982. Quando vidi il paesaggio la prima volta sembrava una cartolina ingiallita di inizio novecento. Colline brulle con rocce e cespugli spinosi sparsi qua e là, tratti di vegetazione più fitta e boschiva, un fiume tra le montagne in cui ci si faceva il bagno vestiti (il costume era ed è ancora haram, cioè peccato) e pastori e mucche e agnelli a pascolare con i campanelli al collo. Ogni 5 km un posto di blocco su bianche strade sterrate e polverose. La corrente elettrica era ancora un’utopia. Più giù, al confine, il territorio occupato da cui partivano sibilanti razzi che a volte colpivano i campi e a volte le abitazioni. “Quando colpirono casa nostra fortunatamente non c’eravamo. Una granata era esplosa in giardino e le schegge avevano spezzato le inferriate delle finestre, trasformandole in pericolosissimi proiettili lunghi decine di centimetri. Uno di questi si era infilato in un mobile e da lì conficcato nel muro per metà della sua lunghezza. Un’altra volta un missile colpì l’ultimo piano abbattendo tutta la parete della cucina. Spesso, di notte, si sentivano colpi di mitra, elicotteri e carri armati in movimento: erano i combattimenti tra resistenza e occupanti. Il giorno dopo c’era sempre un funerale”. Dall’altra parte del filo spinato che segnava il confine, su una collinetta, spiccava un basso edificio di cemento suddiviso in cellette grandi sì e no 1 metro quadrato prive di finestre, nelle quali i prigionieri di guerra libanesi venivano ammassati e torturati. Le mura delle celle erano intasate da un odore nauseabondo. C’è sempre stato il divieto di filmare o fotografare la struttura; durante l’ultima guerra le bombe israeliane ne hanno cancellato ogni traccia, lasciando solo l’eco delle urla dei torturati morti o sopravvissuti a vagare come fantasmi nei boschi sottostanti. Al paesaggio di allora si sono aggiunte meravigliose ville con giardini e pergolati costruite da chi ha fatto fortuna all’estero e viene qui a villeggiare, attratto dal clima fresco e ventilato. Sono invece uguali ad una volta le casette dei poveri contadini o artigiani che, iscrivendosi al partito della resistenza hezbollah, arrotondano le scarse entrate mensili con un sussidio che garantisce loro il cibo per tutta la famiglia. Arrivo nel paesino ed entro in una di queste basse abitazioni di cemento circondate dalle colline. Le finestre non hanno vetri e l’arredamento è costituito da una grande stuoia di paglia con sopra dei cuscini disposti lungo le pareti e a fungere da divani. “La mia antenata nacque e crebbe in una casa come questa. Era devotissima e misteriosa. All’età di quindici anni venne data in sposa a un commerciante Sayyed, ma non per questo smise di lavorare. Con i risparmi accumulati acquistò una mucca per la quale era invidiata da tutto il paese, finché una volta, incinta, venne rabbiosamente malmenata da una vicina delirante per i morsi della fame. Fu una madre fecondissima, ma dopo qualche anno il marito la derubò e si risposò altre tre volte, generando un’infinità di discendenti. Non si arrabbiava né scomponeva mai, ma da allora chiunque le mancava di rispetto veniva colpito da maledizioni che puntualmente si avveravano”. Mi vengono offerti un tè e dei semi di zucca. Alle domande da dove vengo e com’è la vita in Italia rispondo sinteticamente, mi vergogno della mia condizione privilegiata. Quando mi chiedono se si sta meglio qui o lì rispondo con diplomazia: hasab, dipende. I bambini più piccoli, scalzi e in mutande e canottiera, giocano per terra con delle mollette per stendere la biancheria; la ragazza più grande sta invece badando al pranzo sul fuoco. Oggi si mangia riso con lubia (taccole) al pomodoro. E poi pane, olive, uova, formaggio caprino e yogurt. La carne più economica è il pollo ma in generale viene consumata in coincidenza delle feste religiose o se si hanno ospiti importanti. Il pranzo è pronto e mi unisco a loro come la tradizione impone anche quando l’ospite è inatteso. Si pranza normalmente nei piatti, seduti per terra a gambe incrociate su una stuoia apparecchiata con una tovaglia plastificata. Il primo a essere servito è il capofamiglia. I bambini, seduti composti, mangiano tutto voracemente senza lamentarsi né del sapore né della quantità. Anche la verdura viene assaporata e gustata senza fare capricci. Dopo aver mangiato prendono un portafoto e mi raccontano del primogenito morto nei combattimenti, delle televisioni rubate e delle case bruciate dagli occupanti. Eppure loro sono orgogliosi di avere un figlio che si è sacrificato per la Patria. Ne parlano lucidamente e con tranquillità, come se fosse lì ad ascoltarli, certi che prima o poi lo rincontreranno. La morte non è perdita di una parte di se stessi ma solo del corpo del defunto. Le famiglie povere del Sud sono ancora strutturate in maniera patriarcale, tanti figli nonostante l’incertezza economica e ragazze che vengono date in sposa giovanissime al primo buon partito che chiederà loro la mano. Grazie alla dote offerta dal futuro sposo potranno acquistare degli abiti da signora, scarpe con i tacchi e qualche gioiellino d’oro da indossare il giorno del fidanzamento ufficiale (katab kteb, letteralmente “scrittura del contratto”) e quello del matrimonio. Il fidanzamento serve a frequentarsi e conoscersi il più possibile nel pieno rispetto della religione, tutelati da un contratto che potrà essere disdetto da entrambe le parti in caso di incompatibilità. Mi chiedono se sono sposata, dico di no, come mai, sei grande. Spiego loro che in Italia non è più così, non ci sposa tanto presto, anzi, ma la cosa li stupisce ancora di più perché non concepiscono l’idea di vivere senza fare figli o di farli “da vecchi”: è contro natura. Sorrido, le problematiche economico-sociali che assillano la generazione italiana sono troppo lunghe e complicate per essere spiegate, preferisco passare per zitella. La mia visita è terminata, saluto e me ne vado. “Torna a trovarci quando vuoi”. “Se Dio vuole, tornerò”. Rientro in città con la sensazione di aver fatto l’ennesimo sbalzo spazio-temporale. Quando arrivo è ormai sera tardi e il centro di Beirut è bloccato dal traffico dei giovani benestanti pronti a tuffarsi nella vita notturna. La voglia di vivere e divertirsi è più forte di qualsiasi altra cosa. Canzoni arabe e straniere si mescolano nell’aria, uscendo a tutto volume dai finestrini abbassati delle automobili nuove fiammanti. Alberghi, ristoranti, pub, discoteche e casinò sono a pochi metri dal mare, illuminatissimi e brulicanti di persone. Sembra di essere nel pieno delle vacanze estive: gruppi di ragazzi, passeggini e coppie avvinghiate camminano su e giù con i gelati in mano. L’aria profuma di acqua salata e le stelle ricambiano gli sguardi con luccicanti occhiolini che movimentano il cielo della notte. Ma il buio nasconde i resti di un passato che sembra voler rincorrere queste vite per l’eternità. Dopo qualche giorno di tranquillità e gli scoppiettanti festeggiamenti c’è di nuovo qualcosa che non va. Ieri sera un ragazzo è stato accoltellato alla schiena in mezzo alla strada e in circostanze misteriose. Alcune vie sono state bloccate per qualche ora e sono aumentati i soldati dell’esercito agli angoli delle strade. Dall’America sono appena arrivate in regalo centocinquanta gigantesche jeep che aiuteranno a “mantenere l’ordine pubblico”. L’ex primo ministro si stava finalmente ritirando dopo gli accordi di Doha ma è stato prontamente richiamato all’ordine da una telefonata intercontinentale. E così, nonostante tutto, è stato riconfermato anche a capo del nuovo governo. In Libano è ricominciato il conto alla rovescia. Sguardi e bocche assetate e ingorde sono puntate qui da secoli, e lo saranno fino a quando non avranno spremuto questo succoso frutto fino all’osso. “Abbonderà il frumento nel paese, ondeggerà sulle cime dei monti, il suo frutto fiorirà come il Libano”. Dicono che d’estate ci sarà un’altra guerra.

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